La vittoria della Lazio a Salerno conferma l’idea di una squadra che può lottare fino in fondo per entrare fra le prime quattro della classifica finale e, di conseguenza, qualificarsi per la prossima Champions League.
Al di là della vicinanza con la zona che dà ingresso all’Europa che conta di più (la distanza dalla Roma quarta è di sole due lunghezze in questo momento) a destare impressione è l’evoluzione di una squadra che sta diventando sempre più a immagine e somiglianza dei desideri del suo allenatore.
Quando infatti Maurizio Sarri ha preso in mano le redini della compagine biancoceleste, lo ha fatto dimostrando ancora una volta quella duttilità che difficilmente gli viene riconosciuta. In realtà, se è vero che il primo Sarri (quello della carriera nelle serie minori) era una sorta di integralista del 4-2-3-1, è altrettanto vero come da Empoli in poi il tecnico toscano abbia saputo adattarsi al materiale umano a disposizione.
La sua Juve con Ronaldo a fluttuare sulla sinistra e con il francese Matuidi a coprire le spalle al portoghese ne è stato solo l’ultimo esempio prima dell’avventura romana.
Arrivato nella capitale Sarri ha dovuto nuovamente reinventarsi, avendo ereditato una squadra abituata dalla precedente gestione tecnica (quella lunga cinque stagioni di Simone Inzaghi) a difendere bassa per ripartire poi in contropiede.
In fase di possesso i laziali erano soliti cercare di attirare la pressione avversaria per creare campo alle spalle della prima linea difensiva, da risalire poi celermente con giocate verticali. L’ultima Lazio di Simone Inzaghi sfruttava molto il lavoro in possesso dei tre centrali difensivi, coadiuvati da Leiva e da Luis Alberto, per giocare poi prevalentemente su Milinković-Savić e da lì servire Immobile in attacco alla profondità.
Ricevuta questa eredità, Sarri si è accorto quasi subito di non poter implementare rapidamente i il proprio credo calcistico. A partire dal pressing ossessivo sulla costruzione rivale. La sua Lazio infatti denotava delle difficoltà nell’attuazione di questa strategia difensiva, con i giocatori che andavano in difficoltà nei tempi e nei modi con i quali era necessario portare una pressione avanzata. Per questo l’allenatore biancoceleste finiva per abbassare il proprio baricentro medio, favorendo una maggior copertura delle linee di passaggio e creando campo da attaccare per Immobile, Felipe Anderson e Zaccagni.
La prima Lazio di Sarri era quindi figlia dei compromessi, risultando alla fine il secondo attacco del campionato (77 reti, dietro le 84 dell’Inter) ma concedendo ben 58 reti (peggior dato fra le big della massima serie).
Quest’anno, il comandante sta proponendo un approccio un po’ più diretto e verticale. Se la fase di pressing continua a non essere ancora efficace come Sarri vorrebbe (la Build-up Disruption è -2.83%, la terza peggiore in Serie A) la squadra biancoceleste è però più strutturata con la palla fra i piedi, soprattutto nelle partite disputate senza Immobile.
L’attaccante della nazionale è ovviamente una grande risorsa in termini realizzativi ma riduce il livello qualitativo del palleggio della formazione di Sarri rispetto a quando viene schierato Pedro o Felipe Anderson come centravanti di manovra.
È chiaro come l’assenza di Immobile, oltre a privare la squadra del suo cannoniere, tolga anche qualcosa in termini di attacco alla profondità, soprattutto nelle circostanze nelle quali a mancare è anche Lazzari, l’altro elemento verticalizzante della compagine di Sarri.
Come detto, la squadra capitolina appare ora più fluida e capace di ordinarsi meglio col palleggio nell’ultimo terzo di campo, dove i dati di possesso sono sempre alti (52.55% di field tilt).
Pur mantenendo gli stessi pattern offensivi, la seconda Lazio di Sarri sembra quindi più consapevole del tipo di possesso che vuole attuare nell’altra metà campo.
Dal punto di vista statistico i biancocelesti rimangono compagine che sta over performando: il dato dei gol attesi (34.38 xG) è infatti inferiore a quelli effettivamente realizzati (39) così come i gol subiti (19) sono sensibilmente inferiori al dato degli expected goals against (27.09).
In possesso la qualità dei singoli a disposizione di Sarri gioca la sua parte. Non a caso la Lazio è la prima squadra del campionato per shot accuracy (37.1%) e seconda per quanto riguarda la goal conversion (14.39%).
Come si vede, i margini di miglioramento sono ancora ampi in entrambe le fasi di gioco. Bisognerà vedere se la rosa sarà in grado di fare un ulteriore salto di qualità e verso che tipo di gioco tutto questo eventualmente porterà. Di certo resta da risolvere il problema legato alla continuità di rendimento, sul quale si è spesso soffermato proprio Sarri attribuendo ai suoi una certa incapacità nel mantenere il medesimo livello di concentrazione in partite ravvicinate o, a volte, anche all’interno della stessa gara, come accaduto ad esempio nel secondo tempo di Lecce.
When the Saints Go Marching In
Il Southampton ha deciso ti togliere il titolo ad interim da Rubén Sellés, confermandolo come manager fino al termine della stagione. Lo spagnolo sostituisce Nathan Jones (a sua volta subentrato a novembre a Ralph Hasenhüttl) dopo novantaquattro giorni nei quali il gallese ha collezionato 7 sconfitte su 8 partite di Premier.
Il trentanovenne Sellés non è mai stato un giocatore professionista, ma è riuscito lo stesso ad ottenere il patentino Uefa Pro a soli venticinque anni di età. La sua è una esperienza multiforme, essendo stato preparatore atletico, video analista per diversi club in giro per il mondo.
Una cosa pressoché impossibile in Italia dove i corsi per allenatori professionisti (Uefa A e Pro) sono praticamente riservati agli ex calciatori.
Dal punto di vista tattico Sellés sta cercando di reintrodurre il 4-2-2-2 tutto pressing e verticalità di Hasenhüttl. Qualora lo spagnolo dovesse centrare l’obiettivo salvezza, si potrebbe parlare di impresa.
Al di là di come andrà a finire, sarebbe interessante sapere cosa hanno da dire della scelta dei Saints coloro i quali ancora difendono, nel 2023, l’autoreferenzialità di un sistema didattico che preclude, oltre all’accesso ai corsi, quella circolazione delle conoscenze che invece porterebbe ad una crescita del livello culturale dell’intero ambiente.
I problemi di Xavi
Senza Pedri né Gavi, il Barcellona di Xavi è stato eliminato dal Manchester United dopo aver perso (2-1) all’Old Trafford. Una partita decisa dai brasiliani dello United e che ha portato il Barça ad un’altra precoce eliminazione europea.
Quest’anno in Europa i blaugrana sono riusciti a superare soltanto il Viktoria Plzen. Con le due reti subite da Fred e Antony il totale dei gol incassati a livello continentale in stagione dalla squadra di Xavi è arrivato a 16 in 8 partite, contro i 7 subiti in 22 partite di Liga.
Contro il Manchester non è bastato nemmeno andare in vantaggio, grazie al rigore di Robert Lewandowski.
Nella prima frazione il Barcellona aveva gestito bene gli inglesi, anche in situazione di difesa in campo aperto. Le cose cono cambiate quando Erik ten Hag ha iniziato a muovere i giocatori, togliendo Wout Weghorst per inserire Antony e spostando Rashford dalla sinistra alla posizione di centravanti (già tenuta nell’andata). Alle sue spalle veniva posizionato Bruno Fernandes, con Jadon Sancho a sinistra. Anche Alejandro Garnacho entrava bene in campo.
I cambi di Xavi invece (Ferran Torres, Ansu Fati e Marcos Alonso) sono risultati ininfluenti. A finire nel mirino della critica c’è la gestione del tecnico catalano. Il Barcellona quest’anno ha speso 153 milioni di euro per acquistare i vari Raphinha, Lewandowski, Franck Kessié, Jules Koundé, Ousmane Dembélé, Andreas Christensen, Héctor Bellerín e Marcos Alonso, col risultato di venir eliminato da Champions e Europa League.
In campionato le cose vanno meglio, con la squadra prima in classifica. Se Xavi dovesse vincere La Liga molti giudizi potrebbero cambiare. E voi come valutate il lavoro svolto finora da Xavi?