Cosa ci ha detto la sfida fra Xavi e ten Hag
E in più: Thiaw, Zaffaroni e l'arrivo di Jesé Rodríguez alla Samp
Il Barcellona di Xavi (con il club alle prese con lo scandalo arbitrale che sta sconquassando la Spagna) è riuscito a centrare un pareggio importante contro il Manchester United in una partita nella quale i blaugrana erano andati in vantaggio, salvo poi essere rimontati da un uno - due degli inglesi che aveva fatto volgere l’incontro al peggio.
Quella andata in scena al Camp Nou è stata una sfida dagli alti contenuti tecnici e tattici, con un livello da Champions anche se in realtà si è trattato della partita di andata di un doppio confronto di Europa League.
Una battaglia strategica che ha visto i due tecnici utilizzare tutta una serie di accorgimenti che hanno resto l’appuntamento fra le due squadre ancor più interessante.
Una delle soluzioni più innovative della serata è stata quella che ha visto protagonista Erik ten Hag. Il tecnico olandese dello United ha infatti stupito tutti presentando un 4-3-3 che prevedeva il suo connazionale Wout Weghorst impiegato da mezzala, con Marcus Rashford schierato da attaccante centrale.
Per quanto riguarda la prima scelta, all’ex Burnley venivano affidati compiti prettamente difensivi, con il no.27 dello United che veniva incaricato di francobollare Franck Kessié mentre il duo brasiliano composto da Fred e Casemiro (che completava la mediana inglese) andava ad orientarsi a uomo su Frenkie de Jong e Pedri.
Tenendo una linea difensiva onesta (cioè non molto sbilanciata in avanti) ten Hag sceglieva di difendere i corridoi centrali del campo, lasciando una certa libertà di ricezione agli esterni catalani Jordi Alba e Raphinha.
Xavi ha organizzato la sua squadra per dettare il contesto tramite il possesso (62%) ma alla fine a risultare più efficaci sono state la pressione e le ripartenze degli ospiti. In questo senso lo United ha potuto sfruttare due fattori: l’impiego di Rashford e la prestazione rivedibile di Jules Koundé e Marcos Alonso nella linea difensiva blaugrana.
Per quanto riguarda il primo (giunto a 14 gol segnati nelle ultime 16 partite disputate), i suoi continui attacchi alla profondità creavano dei seri problemi all’ultima linea degli spagnoli.
Ruotato in carriera in tutte le posizioni offensive dai vari tecnici che si sono succeduti nelle ultime annate ad Old Trafford, il nazionale inglese ha avuto un grande impatto inserito in un contesto fatto di rapide transizioni e nel quale Rashford ha svolto, più che le funzioni di un falso nueve, quelle di una ala impiegata da centravanti.
Così facendo il venticinquenne nativo proprio di Manchester ha generato confusione nella fase difensiva rivale, con i difensori avversari che non riuscivano a contenerlo.
Sia Koundé e Marcos Alonso hanno infatti sofferto la presenza di Rashford come riferimento offensivo più avanzato e non sono stati supportati da Ronald Araújo. Impiegato probabilmente per aiutare la costruzione della sua squadra (e soprattutto perché Xavi aveva pensato ad un Rashford esterno) l’uruguaiano non ha impattato nemmeno in fase di possesso.
Davanti ad una situazione di difficoltà Xavi è stato lento a reagire (e non è la prima volta che accade). I suoi cambi (dentro Ansu Fati, Balde e Christensen per Marcos Alonso, Alba e Kessié) miglioravano la fase offensiva del Barça ma non influivano sulla pericolosità del Manchester, che continuava ad essere alta. Così come non ha sortito effetti il successivo cambio di Ferran Torres per un Raphinha infuriato a causa della sostituzione.
Alla fine è lo United che può recriminare per un pareggio finale che va stretto alla squadra di ten Hag, al termine di un confronto caratterizzato proprio dalle scariche elettriche generate dalla verticalità inglese.
Sarà interessante ora vedere cosa i due allenatori ci proporranno nella partita di ritorno, con il Barcellona che dovrà affrontare il viaggio a Old Trafford senza l’infortunato Pedri e lo squalificato Gavi.
Gli acquisti del Milan
Le sfide contro il Tottenham ed il Monza hanno certificato che il Milan può contare su Malick Thiaw. Con il Milan alle prese con una crisi tecnica e di identità, Stefano Pioli ha deciso di rivoluzionare la squadra, a cominciare dal passaggio alla difesa a tre.
Dopo una prima uscita complicata col nuovo vestito (il derby è stato dominato dall’Inter molto più di quanto abbia detto il risultato finale) la compagine rossonera ha prima bevuto un brodino caldo nella sfida con il Toro (vittoria 1-0) e, successivamente, si è imposta (con lo stesso punteggio) su un Tottenham che non sta attraversando un grande periodo di forma ma che si presentava a San Siro con l’ovvio titolo di favorito.
All’interno della prestazione del Milan è risaltata quella di Thiaw. La sua prova da braccetto sinistro è stata positiva in entrambe le fasi di gioco.
Senza palla il tedesco è stato forte e aggressivo nella sua zona di competenza, dove gravitava Dejan Kulusevski. L’ex Schalke 04 si è fatto notare anche con la palla fra i piedi attraverso una corretta gestione della stessa.
Anche col Monza la prova del ragazzo di Düsseldorf è stata buona, stavolta da centrale della linea a tre e nonostante un secondo tempo nel quale il Milan avrebbe sì potuto chiudere la partita ma che ha generalmente visto i ragazzi di Pioli soffrire davanti alla squadra di Raffaele Palladino. La domanda che un po’ tutti si sono posti è perché Pioli non si a ricorso prima a Thiaw.
In generale l’interrogativo vale un po’ per tutti nuovi acquisti di quest’anno, che il tecnico ad un certo punto è sembrato bocciare in blocco. Infatti, se si eccettua Charles De Ketelaere (1018 minuti totali giocati fra campionato e coppe), comunque utilizzato in più posizioni ma mai a destra, i vari Sergiño Dest (825), Yacine Adli (115) e Aster Vranckx (79) sono stati finora sottoutilizzati.
È vero che adattarsi ad un nuovo calcio e ad una squadra che pratica un calcio complesso come quella rossonera non è per tutti immediato. Rafael Leão e Sandro Tonali, per fare due esempi, hanno avuto bisogno di tempo per inserirsi nei meccanismi della squadra di Pioli.
Tuttavia, il minutaggio concesso ai nuovi è sembrato eccessivamente limitato nella prima parte di stagione. Chissà che il passaggio alla difesa a tre, se dovesse rivelarsi definitivo, non apra più spazi a qualcuno degli acquisti dello scorso mercato estivo.
Il normalizzatore
Questa settimana sono saltate due panchine in Serie A, con il ritorno in Italia di Paulo Sousa (a Salerno in sostituzione di Davide Nicola) e l’allontanamento di Luca Gotti (a Spezia, con il suo posto che dovrebbe essere preso da Leonardo Semplici).
Entrambe le squadre avevano iniziato male il nuovo anno: la Salernitana collezionando quattro punti fuori da 7 partite disputate mentre lo Spezia racimolando appena tre pareggi nello stesso numero di gare.
A far propendere i due club per la soluzione della sostituzione dell’allenatore oltre che l’andamento degli ultimi tempi è stata anche la resurrezione del Verona. Dato per spacciato fino a poco tempo fa il club scaligero ha infatti ingranato una marcia da salvezza, con 12 punti ottenuti a partire da gennaio.
Alla vigilia della sfida contro la Roma la distanza dell’Hellas dalla salvezza si è ridotta a soli due punti. Sarà un caso (ma forse no) che il buon momento dei veneti è iniziato quando il club ha deciso di affiancare Marco Zaffaroni a Salvatore Bocchetti.
Arrivato per motivi di patentino (Bocchetti non ha il Pro necessario per essere primo allenatore in Serie A e B) Zaffaroni ha contribuito alla svolta della compagine gialloblù. Delle novità tattiche introdotte da Zaffaroni abbiamo parlato in questo articolo, nel quale si elogiavano anche le prestazioni di Milan Đurić.
Con il bosniaco ora fuori per infortunio, i suoi compiti sono affidati a Adolfo Gaich. I riflettori sono però puntati sul tecnico. Primo esonerato dell’era Berlusconi a Monza, Zaffaroni ha probabilmente inciso anche da un punto di vista psicologico in un gruppo che si trovava in grande difficoltà al momento del suo affiancamento a Bocchetti (era infatti reduce da 10 sconfitte consecutive).
Non essendo all’interno dello spogliatoio e non potendo quindi sapere con certezza quali leve abbia premuto Zaffaroni a livello mentale, ci dobbiamo limitare agli aspetti di campo. Nel rettangolo verde il Verona appare ora una squadra più razionale, in grado di sfruttare al meglio le qualità (tante o poche che siano) a disposizione.
Un’opera di normalizzazione, termine da intendersi in questo caso con una accezione assolutamente positiva. Per Zaffaroni si tratta di una grande opportunità, seppur in compagnia di un altro tecnico.
Ex difensore del Taranto e del Monza durante gli anni da calciatore, il cinquantaquattrenne milanese ha iniziato ad allenare dal basso, come vice di Giovanni Pagliari al Perugia (sostituito anche per alcune partite dopo l’esonero), per passare poi a lavorare in Eccellenza e Serie D con Folgore Verano e Folgore Caratese prima del già citato passaggio sulla panchina del Monza (riportato fra i professionisti) e delle successive avventure con Albinoleffe, Chievo e Cosenza.
«Senza le basi, scordatevi le altezze›› è la frase cara a Zaffaroni. Ed è la regola che sta applicando anche in Veneto. Vedremo se riuscirà a centrare la salvezza. In ogni caso, anche solo se dovesse riuscire a tenere la squadra in lotta fino all’ultimo, Zaffaroni avrebbe diritto a partire dall’inizio l’anno prossimo, a Verona o altrove.
Metti un Jesé nel motore
L’arrivo di Jesé Rodriguez alla Sampdoria (una desperation move da parte del club blucerchiato) ricorda per certi versi quanto accadde nella Genova doriana nel gennaio di venticinque anni fa. Era infatti il 1998 quando la società ligure decise di firmare un altro calciatore in parabola discendente nel tentativo di salvare una stagione che stava affondando.
Nell’invero di quel campionato 1998-98 sbarca infatti a Genova il calciatore inglese Lee Sharpe, l’ennesimo britannico nella storia di un club che ha visto la sua gloriosa maglia indossata da molti giocatori d’Oltremanica: da Trevor Francis e Graeme Souness fino a Des Walker e David Platt.
E proprio quest’ultimo viene chiamato dalla famiglia Mantovani per cercare di risollevare le sorti di una compagine in difficoltà, con la decisione di esonerare un giovane Luciano Spalletti per affidare la conduzione tecnica della Doria all’inglese. Il quale non ha il patentino e deve per questo essere affiancato da un altro tecnico, individuato dalla dirigenza nella figura di Giorgio Veneri.
La scelta del presidente Enrico Mantovani si rivelò fallimentare. La coppia Platt - Veneri raccolse infatti solo tre punti in sei partite: tre pareggi a Marassi con Milan (2-2), Bologna (1-1) e Udinese (1-1).
La Samp finì ancora più in basso in classifica, con Platt che alla fine decise di rassegnare a le dimissioni, preludio al ritorno di Spalletti. Il tecnico toscano non riuscirà però a salvare la squadra. In questo breve interregno di Platt si consumarono le tre presenze di Sharpe.
Sulla carta non c’è paragone fra la Samp attuale e quella che (non) vide protagonista l’ala sinistra ex Leeds e Manchester United. Quella squadra infatti poteva contare su elementi quali il burrito Ortega e Montella, oltre che su giocatori validi come Simone Vergassola, Fabio Pecchia, Pierre Laigle o Nenad Sakic (attuale vice di Dejan Stanković proprio alla Samp).