Elogio di Busi
Sergio Busquets lascia il Barcellona. L'analisi del derby di Champions. La Juve vista contro il Siviglia.

Leggenda, eterno, unico…tanti gli aggettivi utilizzati sui social in questi giorni per definire Sergio Busquets, che lascerà il Barcellona a fine stagione dopo quindici anni in maglia blaugrana, con 719 partire disputate (al momento dell’annuncio) e 31 titoli vinti. Soltanto Messi (778) e Xavi (767) hanno disputato in carriera più partite di Busquets con la maglia del Barça.
Uno dei migliori centrocampisti del mondo e della storia recente del calcio ha quindi deciso di lasciare la Catalogna, forse per accettare una lucrativa offerta dall’Arabia Saudita.
Ma che eredità lascia l’ex campione del Mondo con la Spagna nel 2010? Dal punto di vista tecnico e tattico, Busquets incarna perfettamente la versione moderna del centromediano metodista.
Non si tratta infatti di un play puro (alla Andrea Pirlo per intenderci) né di un frangiflutti davanti alla difesa (un Marcel Desailly o un van Bommel) quanto invece di una via di mezzo, un elemento in grado tanto di fungere da schermo quanto di distribuire palla sul corto e sul lungo come un buildup director.
Da quando Guardiola lo fece debuttare giovanissimo, nel 2009, Busquets ha messo le sue qualità a disposizione della squadra, diventando indispensabile sia per i tecnici avuti al Barcellona (Pep, Tito Villanova, Tata Martino, Luis Enrique, Valverde, Setién, Koeman e Xavi) che per quelli succedutisi alla guida della nazionale spagnola (Del Bosque, Lopetegui, Hierro e Luis Enrique).
Nessuno ha rinunciato a lui. A partire, come detto, da Guardiola. Non soltanto il tecnico catalano ha avuto il coraggio di promuoverlo in prima squadra ma ha fatto di Busquets il vertice basso di un centrocampo che, completato da Xavi e Iniesta, ha radicalmente cambiato la tattica del gioco a partire dalla seconda decade degli anni 2000.
Figlio d'arte - il padre Carles Busquets fu portiere di riserva nel Barcellona di Johan Cruijff – Sergio è stato troppo spesso sottovalutato, come capita sovente ai grandi che giocano accanto ad altri grandi più appariscenti. Così è accaduto per Busquets nel ritrovarsi fianco a fianco con i vari Xavi, Iniesta, Messi e compagnia. Troppe volte è stato criticato per i suoi interventi fallosi e per taluni comportamenti scorretti.
Invece c’è dell’altro. In un calcio di possesso che (sinteticamente) aspirava a riempire di passatori il centrocampo per dettare il contesto tattico attraverso il controllo della palla, Busquets diventò per Guardiola l’ideale complemento per i suoi due compagni di reparto, con Iniesta pronto a guadagnare campo palla al piede, Xavi a riciclare e ripulire palla e Sergio fondamentale non soltanto per facilitare al Barcellona costruzione e sviluppo, ma anche per coprire i compagni sulle transizioni rivali o per riaggredire in avanti a palla persa.
Non a caso quel Barça ha ricevuto molti elogi per il suo gioco offensivo e per le idee tattiche di Guardiola (come Messi falso nueve), molto meno per una fase difensiva impeccabile, che partiva sì dal possesso prolungato ma che si sviluppava attraverso l’aggressività senza palla.
Busquets difensore aggiunto in fase difensiva e regista in quella d’attacco è stata una delle chiavi di quell’edizione del Barcellona. Le sue prestazioni nel 5-0 con cui i blaugrana superarono il Real Madrid nel novembre 2010 o quella nella vittoriosa finale di Champions contro il Manchester United del 2011 per 3-1 restano nella storia.
L’intera linea mediana del Barcellona venne poi trasportata in nazionale, contribuendo in modo fondamentale al trittico di vittorie Europe, Mondiale, Europeo degli anni 2008, 2010 e 2012. E sempre con Busquets protagonista, sia impiegato da vertice basso di un centrocampo a tre sia quando Sergio veniva accoppiato a Xabi Alonso con il doppio pivote.
Quelle versioni sono state quelle del Busquets nel suo prime. Recentemente invece, come spesso accade, una fase di declino, non a caso coincisa con le difficoltà registrare negli ultimi anni dal Barça, alle prese anche con una importante crisi societaria. Sul campo le cose sono migliorate quando in panchina è arrivato Xavi, ma nemmeno l’ex compagno d’armi ha potuto evitare l’incedere del tempo, che ha finito per minare alcune qualità di Busquets. A partire dalle difficoltà sempre maggiori evidenziate quando la sua squadra perde palla. Difficoltà in transizione che si sono viste anche con la Spagna nei Mondiali del Qatar, dove Luis Enrique lo ha proposto titolare nonostante l’apporto del catalano non fosse più (per forza di cose) quello di qualche stagione fa.
Resta comunque il lascito di un giocatore che ha segnato un’epoca calcistica e che sarà molto difficile da sostituire. Sulla carta, il giocatore che dovrebbe prenderne il posto al Barcellona c’è già. Si tratta di quel Frenkie de Jong che non ha mai nascosto la sua preferenza per occupare la posizione e le funzioni finora ricoperte da Busquets.
Resta da vedere se l’olandese sarà effettivamente in grado di raccogliere il testimone di Busi. Qualche dubbio in proposito esiste.
D’altra parte stiamo parlando di sostituire Busquets, un giocatore del quale è stato detto che ‹‹se guardi la partita nel suo complesso Busquets non si nota, ma guardando Busquets riuscirai a capire la partita nel suo complesso››.
Oops!…He Did It Again
Parafrasando la canzone di Britney Sears è possibile spiegare cosa è accaduto a San Siro nella semifinale di andata di Champions fra Milan e Inter. Ancora una volta infatti la compagine nerazzurra è riuscita a prevalere sui cugini rossoneri. E, anche in questa circostanza, Stefano Pioli non è stato in grado di trovare contromisure efficaci contro Simone Inzaghi.
Infatti, come già successo in incontri precedenti (specialmente nella finale di Supercoppa) il tecnico nerazzurro è riuscito a sfruttare la forte pressione rivale, girandola a vantaggio della propria squadra.
Allora l’arma in più fu l’utilizzo di Marcelo Brozović che scendeva in mezzo ai centrali per formare una prima linea costruttiva a quattro. Questa volta non è stata necessaria nemmeno questa soluzione.
Con Hakan Çalhanoğlu preferito al croato nella posizione di play, Inzaghi sapeva di perdere qualcosa a livello di fluidità di palleggio ma che avrebbe compensato ciò con una aumentata verticalità.
Sfruttando il primo possesso e la mobilità di Barella e Mkhitaryan (che sulla costruzione bassa nerazzurra si aprivano per liberare linee di passaggio verticali, manipolando la marcatura uomo contro uomo predisposta dal Milan) l’Inter riusciva a trovare Edin Džeko.
Da parte sua il bosniaco era autore di una prestazione da incorniciare, vincendo sempre il duello diretto con i centrali rossoneri e confermandosi in grado di gestire palla e giocarla con Lautaro Martínez o con i compagni a rimorchio.
Anche se l’ex romanista ha mancato il colpo del ko all’inizio della ripresa, la sua prestazione è risultata più che convincente, dando ragione ad Inzaghi che lo ha schierato titolare al posto di Romelu Lukaku.
L’azione del primo gol dell’Inter nasce proprio da un calcio d’angolo generato da una punizione conquistata da Džeko a seguito dell’ennesima pressione alta milanista mandata a vuoto dalla costruzione nerazzurra. Un gol subito da calcio piazzato: un déjà-vu per il Milan, che riporta al derby dello scorso febbraio, deciso da un angolo calciato ancora una volta da Çalhanoğlu e allora trasformato in rete da Lautaro.
Fu, quello, il derby nel quale Pioli (per fermare l’emorragia di gol subiti che ha caratterizzato l’inizio dell’anno dei rossoneri) decise di adottare la difesa a tre, con Davide Calabria e Theo Hernández bloccati da quinti. A cambiare fu l’atteggiamento iniziale, con un Milan che difese con un iniziale blocco basso. Tutte soluzioni che non hanno dato esito diverso rispetto a quanto visto in questo derby di Champions, con l’Inter in totale controllo della prima frazione e il Milan incapace di produrre pericoli offensivi, allora come oggi.
Di contro, ad essere efficace era il non possesso dell’Inter. Inzaghi aveva preparato una struttura di duelli individuali senza palla che prevedeva Dumfries e Dimarco molto alta sui terzini del Milan.
Per l’Inter non era un problema alzare la prima linea di pressione dato che i rivali cittadini, privi dell’infortunato Rafael Leão, non avevano a disposizione la classica giocata da Mike Maignan al portoghese per colpire in profondità.
Questo accorgimento, insieme al controllo esercitato nei corridoi centrali del campo, ha consentito all’Inter di inibire il palleggio milanista, supportando il tutto con la netta vittoria delle sfide individuali.
Al termine dei primi quarantacinque minuti di gioco il punteggio di 2-0 stava addirittura stretto all’Inter. Nel secondo tempo i nerazzurri sono passati in modalità gestione del risultato, cosa che ha permesso al Milan di guadagnare campo e di venire fuori, anche grazie all’ingresso di un positivo Divock Origi. Tuttavia questo ritorno non si traduceva in grandi occasioni da gol, con i rossoneri che impensierivano André Onana soltanto con la conclusione di Sandro Tonali terminata sul palo.
La vittoria finale è dunque la vittoria di Inzaghi nella battaglia tattica contro Pioli e dà all’Inter un buon vantaggio in vista della gara di ritorno. Con la vecchia regola del gol doppio in trasferta il confronto sarebbe praticamente chiuso in favore dei nerazzurri. Così non è e il Milan può ancora sperare di rimontare. A patto di recuperare Leão e, soprattutto, di provare a cambiare qualcosa nella strategia su come affrontare i derby.
Gatti salva la Juve
Un gol in pieno recupero di Gatti, su azione da calcio d’angolo, tiene in vita la Juventus al termine di una partita nella quale ad esprimersi meglio sono stati gli ospiti, soprattutto nella prima frazione di gioco.
Dal punto di vista tattico, il Siviglia ha praticato al meglio quel tipo di calcio che lo caratterizza da quando José Luis Mendilibar ha assunto la guida tecnica della squadra. Un calcio fatto di organizzazione tattica, gioco diretto e pressione alta.
Offensivamente poi la compagine andalusa si è affidata al solito copione fondato sulla ricerca della conquista delle seconde palle e sull’utilizzo dei cross come arma di rifinitura primaria. Davanti al 3-5-2 passivo di Massimiliano Allegri, il 4-2-3-1 base di Mendilibar ha subito trovato superiorità in mezzo al campo.
Il gol del vantaggio sivigliano, realizzato da En-Nesyri, è venuto al termine di una veloce azione in contropiede che ha sfruttato una delle difficoltà di questa Juventus, vale a dire la riaggressione.
La giocata chiave la effettua Jesús Navas che fornisce un pallone in uscita lavorato successivamente da Óliver Torres e da Lucas Ocampos.
In generale la compagine bianconera ha dato l’impressione di provare ad utilizzare situazioni proprie di un calcio contemporaneo (oltre al gegenpressing anche la costruzione dal basso) ma senza averne cognizione di causa. Lo stesso gol preso è frutto di una intenzione proattiva ma disordinata della squadra. In questo senso la Juve sembra uno studente che non è ancora preparato per passare ad un altro livello.
Dopo la rete di En-Nesyri la partita è girata ancora più nettamente a favore del Siviglia, con gli uomini di Mendilibar che hanno collezionato altre situazioni pericolose. Le uniche difficoltà che la Juventus è riuscita a creare nella prima frazione sono arrivate da Ángel Di María.
I problemi della Juventus venivano palesati dalla decisione di Allegri di cambiare assetto nell’intervallo, inserendo Illing-Junior e Chiesa e passando al 4-2-3-1. Nonostante ciò e nonostante l’uscita per infortunio di Ocampos (che privava il Siviglia di uno dei suoi contropiedisti) la formazione andalusa non aveva problemi a difendere contro una Juve che continuava a creare a fatica.
Da qui l’ulteriore cambio di Allegri e il passaggio ad un 4-3-3 con l’inserimento di Paul Pogba al posto di Di María e la successiva inversione di fascia fra Illing-Junior e Chiesa.
Il Siviglia, più rinunciatario nel secondo tempo, continuava comunque a difendere senza affanni, prima di essere punito da Gatti all’ultimo secondo utile. Il pareggio finale è l’unica cosa positiva registrata dalla Juve al termine di questa andata delle semifinali di Europa League. Servirà qualcosa di più per vincere fra una settimana al Sánchez Pizjuán.
Dall’altro lato del campo il Siviglia può invece guardare con ottimismo alla sfida di ritorno, anche se deve rammaricarsi per non aver dilatato il vantaggio nel momento in cui la partita si stava sviluppando in modo favorevole agli andalusi. Detto questo, resta la buona impressione data dai biancorossi, a conferma dell’ottimo lavoro che sta facendo Mendilibar con questa squadra.