Il dopo Tite
Negli stessi giorni della scomparsa di Pelé, la CBF si interroga sul futuro della Seleção.
In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso il calcio, specchio della società, non può costituire un’eccezione. E infatti, così come la società circostante, anche il calcio attuale (forse sarebbe più corretto definirlo contemporaneo) si caratterizza per il suo essere ibrido, fluido, post-moderno.
All’interno di questo contesto non deve quindi stupire il fatto che le selezioni nazionali non vadano più a incidere sullo sviluppo del movimento come facevano un tempo. Prima infatti il Mondiale era foriero di novità che si cercava poi di replicare nel contesto del calcio dei club. Oggi (anche se è prematuro analizzare l’impatto di un evento così ravvicinato come è stato l’appena concluso mondiale qatariota), probabilmente, non è più così, talmente distante sembra essere il football delle rappresentative nazionali da quello praticato appunto a livello di club.
Detto questo, una delle prerogative delle nazionali, almeno di quelle maggiori, è stata quella di affidare la propria conduzione tecnica ad allenatori indigeni (indigenus, lett. nato nel luogo in cui vive) che fossero cioè della nazionalità dei calciatori chiamati a guidare.
La prima, grande nazione calcistica che ha rotto questa tradizione è stata, in tempi recenti, l’Inghilterra, quando decise di affidarsi allo svedese Sven-Göran Eriksson (dal 2001 al 2006) e, successivamente, all’italiano Fabio Capello (dal 2007 al 2012). In entrambi i casi la scelta si è dimostrata fallimentare. I due ex allenatori della Serie A infatti hanno contribuito a dilapidare quella che all’epoca rappresentò la più talentuosa generazione di calciatori inglese dopo quella che vinse i Mondiali disputati su suolo britannico nel 1966. Per intenderci, quella dei vari (non in particolare ordine) Franck Lampard, Rio Ferdinand, David Beckham, Wayne Rooney, Joe Cole, Steven Gerrard, Michael Owen.
Quelle squadre vennero eliminate per due volte ai quarti di finale (nei Mondiali 2002 e 2006 da Brasile e Portogallo) e in una circostanza agli ottavi (nel torneo del 2010 dalla Germania).
Tornando al Qatar, le prime quattro squadre classificate (Argentina, Francia, Croazia e Marocco) erano tutte guidate da allenatori della stessa nazionalità della compagine allenata.
Fatte queste premesse, non deve quindi stupire il fatto che la proposta di affidare la nazionale brasiliana ad un tecnico straniero abbia generato molte discussioni nel Paese sudamericano. La Confederação Brasileira de Futebol (CBF), la Federcalcio brasiliana, sapeva da tempo che Tite avrebbe lasciato al termine del torneo. Nonostante ciò, il modo in cui la compagine verdeoro è stata precocemente eliminata (dalla Croazia nei quarti di finale) ha sollevato delle perplessità in merito al tipo di futebol proposto dal commissario tecnico uscente. La proposta di Tite infatti è stata tacciata di essere troppo europea, che è un po’ come quando alcuni membri di un qualsivoglia partito comunista venivano accusati di deviazionismo.
Per comprendere meglio questo J'accuse lanciato nei confronti di Tite si devono avere presenti le caratteristiche tradizionali del calcio brasiliano, fatto di asimmetrie; diagonali offensive per far avanzare la palla; giocatori dislocati ad altezze diverse e mai sulla stessa linea orizzontale; attacco funzionale; valorizzazione dell’iniziativa individuale; toque e movimenti di smarcamento; giocatori che si approssimano alla palla e non viceversa.
Gli errori di Tite, secondo buona parte di stampa, ex calciatori, tifosi e analisti, è stato quello di abbandonare queste linee guida per giocare un calcio europeo, legato al modello olandese. Un calcio simmetrico, posizionale, che privilegia il controllo, l’occupazione e la fissazione degli spazi.
Non è la prima volta che un tecnico dei verdeoro viene accusato di europeizzazione del modello di gioco. Come non ricordare le polemiche che accompagnarono la gestione di Sebastião Lazaroni quando il ct (poi visto anche in Italia con Fiorentina e Bari) decise di utilizzare la difesa a tre ai Mondiali italiani del 1990?
Eppure quella stessa squadra, con Mauro Galvão come libero, aveva vinto la copa América dell’anno precedente, dopo quarant’anni di digiuno. Inoltre, la formazione che trionfò quattro anni dopo negli Stati Uniti, riportando in Brasile un titolo che mancava dal 1970, era anch’essa più equilibrata e difensiva rispetto alla tradizione brasiliana, con Dunga e Mauro Silva schermi difensivi e Zinho elemento tattico a sinistra.
Anche il Brasile del 1982 di Telê Santana fu una Seleção che, in un certo senso, rappresentava una risposta a quella fisica e meno spettacolare guidata da Cláudio Coutinho in Argentina nel 1978 e che doveva introdurre aspetti del calcio del vecchio continente nella nazionale verdeoro.
La possibilità di accedere più facilmente a conoscenze provenienti dall’estero ha finito per influenzare non soltanto la nazionale di Tite, che ha presentato appunto delle novità rispetto alla tradizione brasiliana (a cominciare dai terzini bloccati per difendersi dalle transizioni avversarie), ma anche il campionato interno. Non a caso al via del prossimo Brasileirão ci saranno dieci squadre sulle venti partecipanti (50%) che avranno allenatori stranieri in panchina. Di questi, ben 7 sono portoghesi.
Fra loro, uno è stato indicato dalla stampa come facente parte della lista di nomi valutata da
Ednaldo Rodrigues, presidente della CBF, per succedere a Tite: Abel Ferreira, allenatore del Palmeiras. Un altro portoghese presente nella lista è Jorge Jesus, ex del Flamengo attualmente al Fenerbahçe. Fra i brasiliani il più gettonato è Fernando Diniz della Fluminense. Sarebbe interessante vedere all’opera Renato Gaúcho, ex meteora della Roma da calciatore che ha fatto grandi cose da allenatore del Grêmio. Accanto a loro, grandi nomi del panorama calcistico internazionale, con Carlo Ancelotti molto gettonato e supportato nella sua candidatura dai brasiliani del Real Madrid Vinícius Júnior, Rodrygo e Casemiro.
A favore della scelta di un allenatore straniero anche il fatto che la maggior parte dei giocatori brasiliani di livello internazionale sia impegnato all’estero. Se guardiamo la rosa presente in Qatar, soltanto il terzo portiere Weverton (Palmeiras), il centrocampista Éverton Ribeiro (Flamengo) e l’attaccante ex Fiorentina Pedro (Flamengo) militavano nel campionato nazionale.
Vedremo quale scelta verrà operata dalla CBF. E vedremo, soprattutto, se il nuovo corso proseguirà in qualche misura il lavoro di Tite o se virerà verso una nuova restaurazione tecnica, in nome di un futebol più brasileiro. Ammesso che sia possibile farlo dato che, come detto, molti nazionali giocano fuori dal Brasile.
Bellissimo pezzo ricco di spunti. Opinione personale: credo che il calcio stia scontando il problema dei calendari sempre più raffazzonati e ingolfati. Nel volley, per fare un esempio, il doppio incarico club-nazionale è diffusissimo. Io penso che una concentrazione dei calendari su uno-due momenti stagionali aiuterebbe una evoluzione in tal senso, portando in nazionale i migliori tecnici oltre che i migliori calciatori.