Hanno fatto rumore le parole recenti di Giannis Antetokounmpo, star della NBA con i Milwaukee Bucks, dopo l’eliminazione ai playoff della sua squadra.
Rispondendo alla domanda di un cronista, il cestista greco ha affermato che ‹‹non esiste fallimento nello sport. Ci sono giorni buoni e giorni meno buoni. In alcuni sei in grado di ottenere il successo, in altri no…questo è lo sport: non devi sempre vincere, vincono anche gli altri››.
Ma è davvero così? In realtà gli sportivi vengono pagati anche per saper gestire le sconfitte e le stagioni fallimentari. Che esistono e fanno parte dello sport. Come dice Antetokounmpo, nello sport non si può vincere sempre. Tuttavia, un’uscita 4-1 al primo turno dei playoff non può non essere considerata un fallimento per i Bucks, la squadra col miglior record della Nba. La domanda è stata quindi legittima, come legittimo è parlare di fallimento relativamente ad obiettivi che non vengono raggiunti.
Le questioni semmai sono altre due. Da un lato, il concetto di stagione fallimentare va tarato relativamente alle potenzialità effettive. Nel calcio si tende a vivere per eccessi: ogni sconfitta un dramma, ogni vittoria una esaltazione collettiva. Molto spesso si è parlato di fallimento quando una squadra non ha raggiunto un risultato finale, prescindendo da una valutazione obiettiva della rosa a disposizione.
In altre circostanze invece abbiamo assistito alla giustificazione di annate negative per una sottovalutazione del potenziale di una squadra.
Dall’altro lato il fallimento non deve essere un’etichetta permanente, ma deve dare la spinta per maturare quei successi svaniti in un primo momento. Quando questi ultimi arriveranno, sarà anche maggiore la gioia, proprio ricordando le sconfitte che li hanno preceduti.
Spillo
È stato recentemente pubblicato un articolo nel quale, esaltando la figura di Alessandro Altobelli (entrato nella Hall of Fame della Federcalcio) lo si accostava a Erling Haaland. Questi paragoni sono sempre divertenti, in particolare per chi (come me) ha vissuto il calcio degli anni ’80 e ’90.
Confrontare giocatori di epoche diverse (è stato più forte Pelé o Maradona? O Cruyff? O Messi? O Ronaldo il fenomeno? O Cristiano Ronaldo?) è un bel modo di passare il tempo, ma non è più di un esercizio retorico utile appunto per trascorrere qualche ora con gli amici ricordando il calcio della propria gioventù...
Quello che mi ha lasciato maggiormente perplesso è stato però un passaggio successivo dell’articolo in questione, ove si afferma che ‹‹al tempo di Spillo i centravanti venivano marcati a uomo, gente come Vierchowod o Gentile (tanto per fare due nomi) non andava tanto per il sottile quando si trattava di fermare un avversario, alla fine delle partite le caviglie erano gonfie come meloni e bisognava farle riposare un secchio pieno di ghiaccio. Da ciò si evince che segnare, a quell'epoca, era molto più difficile di oggi. Ora le squadre si difendono a zona, ci sono più spazi, i giocatori offensivi sono maggiormente tutelati, le entrate dure vengono punite con più severità››.
Si tratta di una vecchia diatriba. “Una volta si difendeva più duro e c’erano meno spazi”. “Con la zona è più facile segnare”. Cose che si sentono dire fin dai tempi della rivoluzione sacchiana. Al di là di come la si pensi (e del fatto che per spiegare genesi, evoluzione e significato del termine “marcatura a zona” ci vorrebbe un articolo ad hoc) dire che oggi ci sono più spazi, per di più causati dalla zona, non appare corretto.
Basta vedere una partita degli anni ’80 (quelli di Spillo) per rendersi conto di come le squadre fossero molto più lunghe in campo, di come fossero rari i raddoppi e di come in linea di massima, una volta saltato l’avversario diretto, il giocatore in possesso palla non avesse da occuparsi eventualmente che del libero per arrivare in porta.
Se parliamo poi del calcio di oggi, affermare che ‹‹le squadre si difendono a zona›› vuol dire non aver tenuto presente l’andamento del calcio europeo nelle ultime stagioni, con il ritorno in auge di una marcatura fortemente orientata sull’uomo e sulla costruzione di duelli difensivi uno contro uno.
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Consiglio
Molto interessante l’ultima newsletter di Giovanni Armanini, incentrata sul calo degli spettatori televisivi in Serie A. È un punto importante, soprattutto in vista dell’assegnazione dei diritti tv del prossimo quinquennio e che chiama in causa, ancora una volta, tre temi fondamentali: l’eccessivo numero di partite e la loro collocazione settimanale e oraria, il numero di squadre partecipanti e la qualità dello spettacolo offerto.
Riguardo al primo punto, la Serie A ormai programma partite dal venerdì al lunedì. In pratica abbiamo superato il weekend. È dura trovare qualcuno che sia disposto a guardarle tutte. Per di più, alcune di queste sono giocate in orari assurdi per i tifosi, come il lunedì e il venerdì alle 18.30. Lo spezzatino, in teoria, dovrebbe consentire di vedere più partite. Sfide giocate in quei giorni e a quelle ore sono però difficilmente fruibili dallo spettatore medio.
Sul numero di squadre presenti in Serie A, la soluzione migliore a mio avviso sarebbe quella di ripristinare un torneo a 16, magari con sole due retrocessioni. Meno squadre significherebbe più talento concentrato nelle compagini partecipanti ed eviterebbe di arrivare a gennaio con due formazioni praticamente già retrocesse, come accade troppo spesso.
Per quanto concerne lo spettacolo offerto, basta fare il paragone con la Premier. Non è una questione soltanto di qualità dei giocatori, ma anche di proposte di gioco.