A sessant’anni, compiuti il 26 gennaio, José Mourinho è ancora sulla cresta dell’onda. Durante la sua lunga carriera nel mondo del calcio (iniziata come assistente di sir Bobby Robson), l’autoproclamatosi Special One ha vinto molto, ha perso tanto, è stato visto come un rivoluzionario prima e come un reazionario poi.
Al portoghese dobbiamo tutta una serie di interviste mai banali, alcune condite da frasi e termini diventati cult (‹‹parking the bus››, ‹‹I prefer not to speak››, ‹‹non sono un pirla››), ma soprattutto l’introduzione ad alto livello di una metodologia di allenamento (la periodizzazione tattica) ancora attuale e che ha contribuito a rendere la scuola di tecnici portoghesi una delle più apprezzate a livello mondiale.
Della sua storia e delle sfide epiche con Pep Guardiola si è già detto e scritto abbastanza. Per questo non guardiamo al passato ma al presente. E il presente di Mourinho si chiama Roma (almeno fino a giugno).
Da quando è arrivato nella capitale, il tecnico portoghese ha dovuto lottare contro tutta una serie di bias cognitivi che lo hanno accompagnato nelle ultime stagioni, in particolare dopo la non felice esperienza vissuta al Tottenham.
La prima riguarda un gioco eccessivamente reattivo. La nomea di difensivista Mourinho ha contribuito a crearsela a partire da quella masterclass difensiva che mise in atto alla guida dell’Inter contro il Barcellona di Guardiola nella (poi vinta) Champions League del 2010.
Fino ad allora non era stato sempre così. Il Porto guidato da Mou alla vittoria nella Champions del 2004 era una squadra attiva, che produceva un calcio più propositivo. A partire da quella sfida del Camp Nou invece Mourinho è stato accostato negli anni ai vari Fernando Santos e Nuno Espírito Santo, vale a dire a quella parte della già citata scuola portoghese accusata di essere più attenta a difendersi che ad attaccare.
Molti di questi giudizi sono proprio da addebitare al suo passato di sfidante no.1 di Guardiola, con il portoghese che rappresentava l’antitesi al calcio del catalano, condizione quasi obbligata (e comunque seguita anche da altri) quando ci si trova a dover affrontare le squadre allenate da Pep.
Arrivato a Roma, Mou ha costruito una squadra che non parcheggia l’autobus, ma che difende con un blocco medio per creare così campo alle spalle della linea difensiva rivale, da attaccare con veloci contropiedi.
Questa impostazione è figlia delle caratteristiche di una rosa che ha ancora gli stessi problemi evidenziati sotto la gestione di Paulo Fonseca (un altro lusitano), vale a dire quelli di una compagine che fa fatica a difendere attuando una pressione alta (per le caratteristiche degli attaccanti) e che però evidenzia dei problemi anche difendendo con un blocco basso (per lacune dei difensori).
La Roma che ne è venuta fuori è quindi una formazione ibrida. Sicuramente Mou dovrebbe cercare di migliorare le fasi di calcio posizionale di una squadra che fatica ad attaccare difese chiuse. In questo senso la Roma si affida ancora troppo ai colpi dei singoli, in particolare Paulo Dybala.
Nonostante ciò, prima di questo weekend che culminerà proprio con la sfida fra la Roma e il Napoli capolista, la compagine capitolina è la quarta forza del campionato per expected goals (xG) prodotti (33.72). Il problema è la concretizzazione di questo dato, finora limitatasi a 25 gol effettivi.
La squadra di Mourinho quindi crea, pur facendolo prevalentemente tramite transizioni brevi e calci piazzati.
Un altro grande bias è quello che considera Mou non adatto a lanciare i giovani. Anche questo non è vero e lo dimostrano i vari Nicola Zalewski (868 minuti giocati in Serie A), Edoardo Bove (145) e Benjamin Tahirović (125). Più facile invece che entri in rotta di collisione contro i calciatori più affermati, ma solo se ritiene che abbiano tradito la sua fiducia in campo e fuori (Shaw, Zaniolo, Karsdorp, Pogba).
La vittoria della Conference League dello scorso anno inoltre ha mostrato all’Europa come Mourinho sia un tecnico tutt’altro che bollito, come troppo frettolosamente è stato etichettato. Anche i cambiamenti apportati negli anni recenti al proprio staff stanno a dimostrare la volontà del tecnico di Setúbal di volersi aggiornare. Il suo calcio potrà piacere o meno (de gustibus) ma certamente la narrazione tossica che lo accompagna sembra alquanto fuori luogo.
Will Still
In Francia sta facendo bene un giovane allenatore belga, chiamato a guidare lo Stade Reims a stagione in corso, dopo l’esonero di Óscar Garcia.
Non ancora in possesso del patentino Uefa Pro, Will Still allena in Ligue 1 perché il suo club accetta di pagare la multa prevista pur di mandarlo in panchina ( e lo stesso fa lo Strasburgo con Mathieu Le Scornet). Sulla questione dei patentini e della quasi inaccessibilità di quelli professionistici (A e Pro) per chi non è stato in passato un giocatore di alto livello torneremo magari in altre circostanze. Qui ci limitiamo a segnalare due articoli sul tecnico del Reims scritti dal Guardian: uno di Still e uno sulla sua ascesa.
Il campionato belga è uno dei più sottovalutati, quando invece nelle ultime stagioni sta fornendo nomi interessanti sia a livello di giocatori che di tecnici.
In Brasile
Se comprendete il portoghese consiglio questa intervista del giornalista brasiliano Leonardo Miranda ad Antonio Gagliardi.
A proposito di Brasile, continua l’approfondimento sul tema del gioco funzionale (in dialogo costante con @stirling_j, @clarissabarcala e @osegundovolante), tema già accennato in una precedente newsletter. Torneremo magari sul senso del termine “funzionale” e sul concetto base di “appoggio” analizzando alcuni esponenti di questa tendenza tattica. Per ora ci limitiamo a ribadire come nel gioco di posizione si debbano occupare determinati spazi mentre il calcio funzionale è ancora più fluido.
Il fatto che questo approccio sia tipicamente sudamericano ha finito per rafforzare l’idea che il gioco europeo sia più ordinato tatticamente, più razionale e, di conseguenza, per un continente figlio di Socrate (almeno fino all’attuale età post-moderna), migliore.
Di contro, il Sud America è spesso considerato solo come il luogo della fantasia, quello dove si rompono le regole e gli schemi. Basti pensare ai soprannomi dati ad alcuni giocatori come el mago (Valdivia), la bruja (Verón), el payaso (Aimar), el loco (Abreu)…tutti legati a personaggi non convenzionali e poco inquadrabili all’interno di un sistema definito.
Detto questo, l’immagine qui sopra (fornita da @clarissabarcala) evidenzia una struttura non posizionale europea, cioè quella del Real Madrid di Carlo Ancelotti.
Nel corso della sua lunga carriera il tecnico italiano è passato dall’essere il rigido sacchiano degli inizi ad un allenatore che lascia maggiore libertà ai suoi giocatori in fase offensiva.
Questa libertà in attacco è in pratica costata il posto ad Ancelotti al Bayern Monaco e al Napoli dove i giocatori (sotto Pep Guardiola e Maurizio Sarri) erano invece abituati ad agire all’interno di una struttura più fissa, più rigida.
Con il gioco di posizione e il suo contraltare (heavy-metal football) che si sono diffusi fino, in alcuni casi, a mescolarsi, sarà interessante presentare una proposta alternativa.