Della gara di ritorno fra Barcellona e Psg che ha visto la vittoria dei parigini e la conseguente eliminazione del Barça si è detto e scritto un po’ di tutto: del piano gara predisposto da Luis Enrique con la decisione di riproporre il tridente composto da Bradley Barcola, Ousmane Dembél e Kylian Mbappé, con quest’ultimo nella non troppo gradita posizione di centravanti; del ritorno da titolare di Warren Zaïre-Emery e del suo accoppiarsi in fase difensiva con Frenkie de Jong (con Vitinha su İlkay Gündoğan, e Fabian Ruiz su Pedri); della spinta propulsiva garantita da Achraf Hakimi sulla destra; dei tentativi dei blaugrana di replicare la strategia dell’andata, basata sulla palla diretta per Robert Lewandowski; dell’espulsione che Ronald Araújo avrebbe potuto evitare; del nervosismo di Xavi Hernández (anch’egli allontanato dall’arbitro)…
Tutto questo, senza tralasciare uno dei fattori chiave che hanno contribuito a determinare il risultato finale (1-4) vale a dire l’inopinata decisione di Xavi di rispondere all’inferiorità numerica provocata togliendo dal campo Lamine Yamal. Se l’inserimento di Iñigo Martínez era infatti doveroso per ripristinare la linea a quattro difensiva, molto meno senso ha avuto richiamare in panchina Yamal, vale a dire il giocatore offensivo più in forma della squadra nonché quello che avrebbe potuto sfruttare il lavoro da pivot di Lewandoski per attaccare in campo aperto partendo da grande distanza dalla porta avversaria, situazione nella quale i blaugrana si sono trovati a causa dell’inferiorità numerica e della pressione esercitata dal Psg.
Detto che la scelta migliore per Xavi sarebbe stata molto probabilmente quella di togliere Gündoğan o Raphinha, la mossa del tecnico catalano ha ricordato a molti quella che fece Arrigo Sacchi trent’anni fa durante i Mondiali americani. In quella circostanza, l’allora commissario tecnico della nazionale italiana si trovò nella condizione di dover togliere un giocatore di movimento per far entrare Luca Marchegiani in porta al posto dell’espulso Ginaluca Pagliuca.
La scelta dell’Arrigo ricadde su Roberto Baggio, che in quell’occasione proferì in mondovisione il famoso ‹‹questo è matto››.
In realtà, l’all-in di Xavi ha avuto molto meno senso di quello di Sacchi. In quella circostanza infatti l’Italia si trovava a dover giocare contro la Norvegia una partita fondamentale per il prosieguo del torneo iridato, in condizioni climatiche proibitive per il caldo e il livello di umidità e contro un avversario fisicamente superiore. La scelta di togliere una delle due punte, lasciando in campo Pierluigi Casiraghi (più strutturato fisicamente di Baggio) manteneva quindi una sua logicità pur nell’azzardo.
Quanto fatto da Xavi invece non rispondeva a nessuna esigenza tattica. Vosì, senza più nemmeno doversi preoccupare di possibili ripartenze avversarie, il Psg ha avuto buon gioco nello schiacciare il Barcellona, sfruttando i continui cambi di campo contro il blocco stretto rivale e mettendo enfasi sulla qualità nel gioco corto e nel dribbling dei propri riferimenti offensivi.
Una modalità di attacco non affrettata, gestita con intelligenza dalla squadra di Luis Enrique che, alla fine, ha trovato facilmente il modo di bucare più volte il blocco difensivo spagnolo.
A proposito di Carlo
Per la dodicesima volta in quattordici anni il Real Madrid raggiunge le semifinali di Champions. Stavolta ci è riuscito dopo aver battuto ai calci di rigore il City di Pep Guardiola, al termine di una gara che ha visto gli inglesi registrare 33 tiri e 18 calci d’angolo (contro zero battuti dalle merengues).
Che si decida di dare più meriti al Real o più demeriti al Manchester per questo risultato, l’esito finale non cambia: Carlo Ancelotti porta i blancos a due passi da quella che sarebbe l’ennesima finale della loro storia. E lo fa con una partita di resistenza difensiva messa in piedi senza Alaba, Tchouaméni, Militao e Courtois (quest’ultimo sostituito da un grande Lunin).
Ancelotti se l’è giocata con Carvajal, Rüdiger, Nacho e Mendy in difesa e con il solito approccio relazionale in attacco.
Una ricetta che, ancora una volta, ha funzionato. E che conferma, se mai ce ne fosse stato ulteriore bisogno, che ogni allenatore deve trovare il materiale umano adatto per esprimersi. Questo Ancelotti è infatti lo stesso che aveva fatto male con il Napoli del dopo Sarri e con l’Everton, due squadre con giocatori che avevano bisogno di strutture tattiche più rigide per poter avere successo.
A Madrid invece Ancelotti ha trovato terreno fertile per il suo modello relazionale. E i risultati si sono visti.
Sempre sulla sfida fra City e Real Madrid
Della partita di ritorno fra Manchester City e Real Madrid rimarranno diverse cose. Le parate di Andrij Lunin, il gol dal dischetto nella serie dei rigori realizzato da Antonio Rüdiger, una certa timidezza di Jack Grealish e Phil Foden (più attenti a garantire controllo a Pep Guardiola che ad affondare il colpo sugli esterni), la compattezza difensiva del Real e l’applicazione dei suoi uomini in non possesso (da Rodrygo a Toni Kroos)…
A restare negli occhi ci sarà però anche la (non) partita giocata da Erling Haaland. Comunque la si pensi, è difficile considerare negativa la stagione di un attaccante che, ad oggi, ha realizzato 20 gol in 26 partite di Premier (più altri 6 gol in 9 sfide di Champions). Tuttavia, ancora una volta la prestazione del norvegese in un big match finisce sotto osservazione.
Tutto questo perché in un calcio iper-offensivo come quello del terzo decennio degli anni Duemila, un attaccante non viene più giudicato dal pur enorme quantitativo di reti segnate, ma anche da come queste ultime sono distribuite e dall’apporto al gioco della squadra.
In conseguenza di questo assunto, l’intera annata di Haaland è stata caratterizzata da analisi che, periodicamente, andavano a voler evidenziare come il norvegese fosse poco inserito (se non addirittura disfunzionale) al gioco del City.
La gara di ritorno contro il Real ha confermato i dubbi dei critici. In questo senso, i dati raccolti da Fbref sono eloquenti. Il no.9 del City ha infatti toccata appena 19 palloni nei novanta minuti in cui è stato in campo, prima cioè che Guardiola lo richiamasse in panchina per far posto a Julián Álvarez.
Contro un blocco basso come quello del Real il Manchester ha fatto fatica a servire il suo attaccante centrale. Dei 19 palloni toccati solo 9 sono stati nell’area di rigore avversaria, cioè là dove il norvegese è più pericoloso.
Non stupiscono così le 5 conclusioni provate da Haaland. Foden e Kevin De Bruyne ne hanno registrate di più (6 a testa). Se il possesso ridondante del City può giustificare questi numeri così scarsi del norvegese, non si può negare che anche fuori area il contributo di Haaland sia stato marginale.
Che l’ex Dortmund non sia giocatore associativo è noto. Tuttavia, 7 passaggi effettuati sono pochi anche per un giocatore delle caratteristiche di Haaland, vale a dire un finalizzatore puro.
Il risultato per il City, ancora una volta, è stato quello di avere in campo una squadra che, in fase offensiva, può contare su dieci giocatori (compreso il portiere Ederson) più uno, intendo con questo uno proprio Haaland, corpo spesso estraneo alla squadra.
Certamente, il periodo di forma del calciatore non è il massimo, con appena una rete segnata su azione nelle ultime nove uscite (comprendendo quelle con la sua nazionale). Un appannamento arrivato nel momento meno opportuno, vare a dire nel periodo chiave della stagione.
Resta però il fatto che Haaland sia come disconnesso dal resto della squadra. Si può discutere all’infinito se, tecnicamente, Haaland rappresenti il centravanti ideale per il gioco posizionale di Guardiola. Il punto però appare essere un altro: il norvegese ha bisogno di un contesto meno ossessionato dal controllo, ove si creino situazioni anche caotiche nelle quali far valere la sua fisicità e verticalità. Esattamente quello che, in questo momento (o forse mai?) Guardiola può offrigli.
Se Haaland è stato acquistato per girare a favore del City queste situazioni nelle quali il controllo viene meno, bisognerebbe chiedersi se non sarebbe il caso di favorirle, almeno in alcuni momenti della gara. Altrimenti, meglio dare più spazio a Álvarez.
Matić
Una partita folle, chiusa fra le polemiche, quella che lo scorso weekend ha visto il Lione sconfiggere il Brest (4-3). Il gol decisivo infatti è arrivato su rigore, realizzato dall’ex romanista Ainsley Maitland-Niles, dopo ben diciassette (!) minuti di recupero.
Il tutto a sancire la rimonta di un Lione che, ad un certo punto della gara, si era ritrovato sotto di due reti (1-3). All’interno di questo contesto, ancora una volta si è segnalata l’abilità di Pierre Sage nella lettura della partita. Il tecnico del Lione ha infatti abbandonato il 4-1-4-1 con cui aveva approcciato l’incontro per passare ad un 4-2-3-1 più fluido, ancorato alle giocate di un Rayan Cherki entrato in corso d’opera.
Proprio il contributo dalla panchina colloca l’OL al primo posto nella Ligue 1 per quanto riguarda gol e assist forniti a partita in corso (rispettivamente 4 e 5). Grazie al contributo dei suoi sostituti, Sage è spesso riuscito in questa stagione a cambiare il risultato.
Fatte salve queste premesse e sottolineando l’apporto di tutta la squadra da quando Sage si è seduto sulla panchina del club, non può passare sotto silenzio il contributo offerto da Nemanja Matić. Il serbo, arrivato a gennaio dopo una prima parte di stagione incolore con la maglia del Rennes, è ben presto diventato elemento chiave della mediana lionese.
Certo, l’ex centrocampista della Roma non ha il dinamismo di un tempo e in un campionato con molte transizioni come quello francese si ritrova spesso a soffrire. I palloni persi vengono però compensati dal senso della posizione, di cui Matić è dotato in abbondanza e da una tecnica che gli consente di dirigere con profitto il traffico.
La presenza di un riferimento difensivo come il serbo ha inoltre consentito a Sage di liberare più avanti Maxence Caqueret e Corentin Tolisso, che così possono offrire maggiormente il loro contributo nella trequarti offensiva sfruttando le loro qualità da invasori.
Un centrocampista dalle caratteristiche di Matić a Lione mancava dalla partenza di Bruno Guimaraes. Sia Peter Bosz che Laurent Blanc avevano invano chiesto di riempire questo vuoto.
L’indispensabilità del serbo è confermata da una statistica riportata dal sito olympique-et-lyonnais.com che, come si può facilmente evincere, si occupa di cose lionesi. In base a quanto calcolato dal portare in questione, con Matić in campo l’OL ha perso soltanto una volta, precisamente contro il Lens (0-3) lo scorso 3 marzo, a fronte di otto vittorie e un pareggio per una media punti di 2.5.