Sull'uscita della Germania dal Mondiale
Per i tedeschi si tratta della seconda eliminazione consecutiva ai gironi. Colpa del modello di gioco?
La sorprendente eliminazione della Germania, uscita ad opera di Spagna e Giappone, mette sul tappeto tutta una serie di questioni riguardanti non soltanto il momento del calcio tedesco ma, più in generale, un certo tipo di atteggiamento tattico.
Fin dalle primissime ore seguenti la disfatta qatariota, con la meinschaft fuori ai giorni per il secondo mondiale consecutivo (dopo la vittoria nel 2014), la stampa tedesca ha puntato il dito sulle scelte di Hans-Dieter Flick e sulla sua gestione tecnica e anche, come detto, su questa fase storica del fussball.
Al di là delle decisioni prese da Flick durante le tre partite disputate o delle prestazioni dei singoli (molti dei quali, a partire da Manuel Neuer e Thomas Müller, entrambi non all’altezza della situazione) ciò che ha lasciato perplessi è stata l’incapacità della nazionale tedesca di convertire in reti effettive quanto prodotto in termini di expected goals.
Una incapacità che va di pari passo con l’assenza di un finalizzatore di peso. La rosa tedesca era infatti piena di giocatori associativi, abili a giocare in zona di rifinitura tanto in ampiezza come nel mezzo. Tuttavia, nessuno dei vari Serge Gnabry, Jamal Musiala, Kai Havertz o Leroy Sané è un convertitore puro di occasiono da gol.
In pratica, senza tornare all’epoca di Gerd Müller o, successivamente, di Karl-Heinz Rummenigge o Klaus Allofs, alla Germania è mancato uno stoccatore come in passato sono stati Jurgen Klinsmann, Rudi Völler, Oliver Bierhoff o Miroslav Klose (per citarne alcuni).
La Germania (e la Germania Ovest prima) è infatti sempre stata caratterizzata dal produrre dei no.9 e no.11 in grado di concretizzare negli ultimi trenta metri di campo quanto costruito dai compagni nei settanta precedenti.
In questa edizione del mondiale la Germania si è invece presentata con il solo Niclas Füllkrug come attaccante classico, cioè con un giocatore che ha sì fatto il suo dovere, ma che complessivamente non può essere considerato un top player.
Se quindi è possibile criticare Flick per aver voluto replicare il modello Bayern in nazionale, proponendo un gioco di posizione che però spesso ha lasciato scoperta e vulnerabile l’ultima linea difensiva della squadra, è altrettanto evidente come non si possa caricare l’allenatore della responsabilità di non aver portato in Qatar un vero finalizzatore. Questo perché, semplicemente, un giocatore del genere non c’è.
E questo ci porta alla seconda considerazione. È vero che ci sono esempi di squadre che hanno vinto con il falso nueve (il Barcellona di Guardiola o il suo City prima dell’arrivo di Erling Haaland). Tuttavia, il calcio di club non è quello delle nazionali, nel quale c’è meno tempo per lavorare su certi meccanismi e dove sono poche sfide a decidere le sorti di una squadra nei tornei che contano.
Se andiamo a osservare le difficoltà dei tedeschi, notiamo come siano simili a quelle che sta passando l’Italia. Anche da noi infatti abbondano centrocampisti, ali e trequartisti ma scarseggiano attaccanti di livello internazionale (sperando che si sviluppino in tal senso elementi come Scamacca e Raspadori).
La domanda da porsi quindi è se un certo tipo di calcio, nel quale serve più un no.9 associativo che un realizzatore tradizionale, renda più complicato produrre dei finisher di alto livello.
Tornando alla Germania, ci sono sempre Joshua Kimmich, David Raume, il già citato Musiala e altri dai quali ripartire. A condizione però di trovare qualcuno che poi finalizzi tutto il loro lavoro (Youssoufa Moukoko?).