Te la do io l'America
La sosta internazionale ha delineato un primo quadro in vista dei Mondiali 2026.

Julián Alvarez, Enzo Fernández, Alexis Mac Allister e Giuliano Simeone hanno segnato le reti grazie alle quali l’Argentina ha letteralmente spazzato via il Brasile (4-1) nella gara di qualificazione ai Mondiali 2026 che ha garantito matematicamente all’Albiceleste il diritto di difendere in Nord America fra un anno il titolo conquistato in Qatar nel 2022.
La sconfitta lascia ora la Seleção a dieci punti di distanza dai rivali di sempre nel maxi raggruppamento che dovrà partorire altre cinque qualificate per i Mondiali (oltre appunto all’Argentina) più una ulteriore formazione (la settima nella classifica finale) che andrà agli spareggi intercontinentali.
In questo momento il Brasile è quarto a quota 21 punti, appena 6 di vantaggio sul Venezuela settimo. Una situazione inaccettabile per media e tifosi verdeoro, a tal punto che l’appena rieletto presidente della CBF (Confederação Brasileira de Futebol), Ednaldo Rodrigues, ha deciso di esonerare il tecnico Dorival Júnior.
Lo stesso Rodrigues, per la sostituzione di Dorival, starebbe nuovamente pensando a quel Carlo Ancelotti già preso in considerazione prima che il tecnico italiano optasse per la permanenza al Real Madrid.
Il Brasile di Dorival giocava male a non faceva risultato. E non certo per mancanza di qualità. D’altronde sono poche le nazionali che possono contare in attacco su giocatori del calibro di Rodrygo, Raphinha e Vinicius Jr. Proprio quest’ultimo ha sottolineato il momento difficile della squadra.
‹‹Tutti sanno quanto sia difficile giocare con questa divisa, ma dobbiamo migliorare, tenere la testa alta, perché siamo brasiliani e non molliamo mai. Ci qualificheremo per la Coppa del Mondo e cercheremo di fare tutto per il nostro Paese››.
Il problema sembra quindi da doversi ricercare all’interno della proposta di calcio predicata dall’ormai ex allenatore. Una proposta fin troppo posizionale. Sebbene lo stesso Dorival avesse dichiarato di volere i suoi attaccanti liberi di potersi esprimere, alla fine anche contro l’Argentina il sessantaduenne nativo di Araraquara (San Paolo) ha presentato in campo una formazione con due schermi difensivi in Joelinton e André, in un contesto alquanto sfilacciato, con Rodrigo de Paul, Mac Allister, Leandro Paredes e Thiago Almada che hanno potuto gestire facilmente palla nei corridoi centrali.
Il modello flessibile e relazionale dell’undici di Lionel Scaloni ha dunque avuto la meglio sulla rigidità posizionale della squadra di Dorival. Basti pensare al fatto che il Brasile è riuscito a toccare per la prima volta il pallone dopo due minuti di possesso argentino. Prima che si arrivasse al quarto giro di lancette, l’Albiceleste aveva già segnato.
Nemmeno gli ingressi di Léo Ortiz, João Gomes e Endrick all’intervallo hanno cambiato l’inerzia della gara.
Se guardiamo ai giocatori a disposizione dei due tecnici, la differenza fra Argentina e Brasile non dovrebbe essere così abissale come si è visto a Buenos Aires. O non dovrebbe esserci proprio. I brasiliani hanno profondità e qualità in ogni ruolo.
La gestione Dorival (iniziata nel gennaio 2024) si chiude quindi dopo 16 partite nelle quali i verdeoro hanno messo insieme 7 vittorie, altrettanti pareggi e due sconfitte, con una eliminazione ai quarti di finale in Copa América (ad opera dell’Uruguay).
Quando, nel 2018, la AFA (Asociación del Fútbol Argentino) decise di affidare la guida della Selección a Scaloni, non si trattò soltanto di un tentativo di superare la difficile gestione di Jorge Sampaoli e una striscia di venticinque anni senza trofei (l’ultimo successo risaliva alla Copa América del 1993), ma segnò anche un cambio di rotta che riportò l’Albiceleste alle radici del suo calcio.
L’impressione è che il Brasile debba fare lo stesso, abbandonando quel progetto posizionale visto già all’opera con Tite e che si è imposto negli ultimi anni a Rjo de Janeiro e dintorni grazie all’arrivo di tanti allenatori portoghesi nel Brasileirão.
Trump World Cup
Forse non sarà ‹‹il più grande evento sportivo della storia››, come pomposamente dichiarato durante l’incontro avuto col presidente della FIFA Gianni Infantino, ma di certo Donald Trump punta molto sul Mondiale nordamericano dell’anno prossimo, che avrà il suo epicentro negli Stati Uniti (la finale si giocherà New York, con tanto di half-time show stile Superbowl).
Make America Great Again (MAGA) passando anche dal soccer dunque. A tal proposito, al di là delle considerazioni di politica sportiva e di quelle climatiche (ricordate il caldo torrido e l’umidità di Usa 94?) è interessante notare come, anche per la pressione di Trump, le aspettative intorno allo USMNT siano già altissime.
Il problema è che la squadra di Mauricio Pochettino non se la sta passando bene, come dimostrano le sconfitte subite ad opera di Panama nelle semifinali della recente Concacaf Nations League e per mano del Canada nella finalina per il terzo posto. Contro la selezione centroamericana la formazione statunitense ha generato un dato di appena 0.68 xG, secondo quanto riportato da ESPN.
La battuta d’arresto contro il Canada ha invece confermato come, allo stato attuale, gli Stati Uniti siano stati sorpassati anche dai cugini nordamericani (oltre che dal Messico) in una ipotetica classifica delle squadre più forti della Concacaf.
La squadra, dal punto di vista del gioco, resta un sodalizio più adatto a difendersi e ripartire che a fare la partita, come vorrebbe invece Pochettino.
Per quanto riguarda invece il talento a disposizione del tecnico argentino, ad oggi soltanto Christian Pulisic, Weston McKennie e Tyler Adams possono essere considerati giocatori di livello internazionale. A questi, in prospettiva, si possono aggiungere Giovanni Reyna, Timothy Weah e, forse, Gianluca Busio e Tanner Tessmann.
In porta né Matt Turner né Zack Steffen danno delle certezze. In attacco manca (storicamente) un centravanti, con Josh Sargent e Ricardo Pepi che al momento non offrono garanzie.
A questo punto la Gold Cup di questa estate (che la squadra potrebbe affrontare senza McKennie, Weah e Reyna a causa degli impegni di Juventus e Borussia Dortmund nel Mondiale per club), ultimo appuntamento in un torneo competitivo per gli Stati Uniti prima della coppa del Mondo, rappresenterà un vero test per capire meglio quali potranno essere le prospettive dello USMNT nel 2026.
Giù al Nord
Ci risiamo. Nubi fosche si addensano sul futuro della nazionale scozzese. La pesante sconfitta interna (0-3) subita dalla Grecia della giovane stella Kōnstantinos Karetsas (diciassettenne centrocampista del Genk) ha spedito la Scozia nella Lega B della Nations League.
Soprattutto, questa débâcle ha reso bene l’idea di come la strada per la qualificazione ai prossimi Mondiali per la Tartan Army sarà tutt’altro che semplice. Nel girone per arrivare in Nord America fra l’altro la Scozia ritroverà proprio la Grecia, oltre a Bielorussia e Danimarca.
La domanda che ci pone oltre il vallo di Adriano è se Steve Clarke sia l’uomo adatto ad affrontare questa campagna. Intendiamoci: nessuno vuole mancare di rispetto all’uomo che ha ridato dignità internazionale al football scozzese, qualificando la squadra a due campionati europei consecutivi (2021 e 2024) e ponendo così fine ad un’assenza dai maggiori tornei internazionali che datava 1998 (Mondiali di Francia).
Tuttavia, la batosta subita contro la Grecia non è la prima battuta d’arresto patita da Clarke alla guida della nazionale. Vero è che dalle altre il cittì ha sempre saputo riprendersi. Ma è vero altresì che il sessantunenne allenatore nativo di Saltcoats guida la squadra dal 2019. Forse un cambiamento potrebbe giovare. Il problema, quando si parla di allenatori scozzesi, è però sempre il solito: con chi eventualmente sostituire Clarke?
Opzioni interne di livello non ce ne sono, dato che la Scozia non è più la terra che in passato ha prodotto i vari Jock Stein, Matt Busby, Alex Ferguson, Kenny Dalglish o Andy Roxburgh. La Scottish Football Association potrebbe però pescare all’estero, come fatto dai cugini inglesi col tedesco Thomas Tuchel.
A questa considerazione si aggiunga quella di una squadra che ha elementi di qualità, ma non in grande numero. Sicuramente lo sono i due centrocampisti del Napoli, Billy Gilmour e Scott McTominay. Buoni giocatori sono poi il bolognese Lewis Ferguson (inspiegabilmente partito dalla panchina contro la Grecia) e John McGinn, centrocampista dell’Aston Villa di Unai Emery.
I problemi però sono in difesa e davanti. Andy Robertson non è più il terzino di qualche anno fa; Grant Hanley ha trentatré anni; il portiere Craig Gordon quarantadue; Anthony Ralston è una riserva al Celtic. L’unico dal quale ripartire sembra essere Kieran Tierney (anche lui stranamente lasciato fuori dall’undici titolare con i greci).
Ché Adams da solo non può garantire un apporto offensivo consistente a questo livello. Forse si potrebbe puntare su George Hirst dell’Ipswich o su Kevin Nisbet dell’Aberdeen, ma non è detto che i due siano in grado di fare meglio dell’attaccante del Torino. La speranza è che cresca velocemente Ben Doak del Liverpool (attualmente in prestito al Middlesbrough).
Visto che, alla fine, sarà molto probabilmente ancora Clarke a cercare di ottenere la qualificazione per la Scozia, sarà bene che il tecnico tenga presente tutte queste considerazioni. Altrimenti, la corsa ad un posto per il Mondiale nordamericano potrebbe trasformarsi in un’altra delusione per gli scozzesi.
La meglio gioventù
Ogni ciclo mondiale che si rispetti presenta, a partire dagli anni Novanta, una eccezionale nidiata di talenti francesi. Il tempo attuale, compreso fra i Mondiali del Qatar del 2022 e quelli nordamericani dell’estate 2026, non ha fatto eccezione. La Francia di Didier Deschamps, qualificatasi per semifinali di Nations League dopo aver superato (ai rigori) la Croazia ha infatti messo in mostra tutta una serie di giovani sui quali i Bleus possono fin da ora cominciare a puntare nella costruzione della rosa che andrà in giro fra Stati Uniti, Canada e Messico l’estate prossima alla ricerca del terzo titolo mondiale.
Il nome più gettonato è quello di Michael Olise. Messosi in evidenza alle olimpiadi parigine (che hanno visto la Francia allenata da Thierry Henry conquistare la medaglia d’argento), il giocatore del Bayern Monaco è l’uomo indicato da tutti come erede di quell’Antoine Griezmann che, lo scorso settembre, ha deciso di dire basta con la nazionale per la quale è sceso in campo 137 volte.
Nella gara di ritorno con la Croazia Deschamps ha optato per un centrocampo con due mediani (Aurélien Tchouaméni e Manu Koné) dietro Olise, utilizzato da trequartista centrale in un attacco completato da Ousmane Dembélé, Kylian Mbappé e Bradley Barcola.
All’interno di questo contesto la prova di Olise è stata significativa, sia in fase di gioco aperto (vedasi l’assist per la rete di Dembélé) che al momento di battere calci piazzati.
Olise è risultato l’attaccante francese ad aver toccata più palloni fra quelli presenti in campo, aiutando la sua squadra anche in fase di costruzione. Nei 106 minuti giocati però si contano anche 28 palle perse. Tante, ma non un dato così strano per un giocatore che punta molto sul duello individuale per superare l’avversario.
A ventitré anni d’età il ragazzo di Londra (nonostante il fatto di essere nato nella capitale inglese Olise ha scelto di giocare per la Francia) ha tutte le carte in regola per diventare un punto di riferimento tecnico per la squadra che andrà in America a caccia del titolo sfuggitole nella finalissima di Lusail nel 2022.
Oltre ad un educato piede sinistro infatti Olise possiede anche una spiccata personalità, come evidenziato in una recente intervista rilasciata a L’Équipe. Non male per un giocatore bocciato dai settori giovanili di Arsenal, Chelsea e Manchester City (tutte colpevoli di averlo lasciato partire perché ritenuto un ragazzo con la testa fra le nuvole) e che, per lanciarsi nel calcio che conta, ha avuto bisogno del trampolino del modesto Reading, club londinese all’epoca in Championship e attualmente impegnato in League One (terza divisione inglese).
Arrivato poi al Crystal Palace, Olise ha avuto la possibilità di essere allenato da Patrick Vieira (ora tecnico del Genoa) e di giocare insieme a Wilfried Zaha e Eberechi Eze, con i quali formava un trio tutto dribbling e fantasia
Da lì l’approdo al Bayern (per €60 milioni) dove, in pochi mesi, è diventato pedina fondamentale nello scacchiere orchestrato da Vincent Kompany, tecnico dei bavaresi. In Bundesliga il suo bottino parla al momento di 8 reti realizzate e 7 assist prodotti. Numeri ai quali aggiungere i 5 gol e i 2 assist sfornati in Champions.
Niente male per un giovane esordiente che, nonostante la fama di giocatore fantasioso, si è trovato a proprio agio anche in un modello posizionale come quello voluto da Kompany, col tecnico belga che è arrivato a definire Olise un calciatore «molto cerebrale».
Ma la nouvelle vague francese non si ferma a Olise. Come detto infatti i transalpini possono contare su un’altra nidiata di talenti. Uno lo abbiamo già citato ed è il romanista Manu Koné, in grado di ancorare bene la mediana transalpina così come quella della squadra giallorossa.
Accanto a lui va menzionato Désiré Doué, ottavo giocatore al di sotto dei vent’anni lanciato in nazionale da Deschamps. Contro la Croazia il calciatore del Psg ha provato dieci volte il dribbling (50% di riuscita) a riprova del fatto che, anche con la maglia dei Bleus, il ragazzo non ha remore nel provare quelle soluzioni individuali che settimanalmente mette in mostra con la maglia del club parigino.
Questo per quanto riguarda i giocatori presenti pe le due sfide con la Croazia. A casa, per ora, sono rimasti Rayan Cherki (Lione), 6 reti e 9 assist in Ligue 1 e Hugo Ekitike (Eintracht), protagonisti della vittoria conseguita dall’Under 21 transalpina contro i pari età dell’Inghilterra (con i giovani inglesi reduci da una striscia di undici partite senza sconfitte).
Insomma, il serbatoio dal quale Deschamps e il suo successore (l’attuale cittì lascerà dopo i Mondiali del 2026) possono attingere è, come sempre, ricco di giocatori di grande prospettiva.