Un Pirlo mancato o un Arthur che ce l’ha fatta?
La carriera di Verratti. E anche qualcosa sul nuovo City di Guardiola e sulla Germania.
E così, anche Marco Verratti decide di lasciare l’Europa per un esilio dorato. Solo che non sarà nella Saudi Pro League, come successo per molti giocatori questa estate, quanto invece per il Qatar, nazione dove ha sede l’Al-Arabi, club che, oltre all’italiano, si è assicurate anche le prestazioni del tedesco Julian Draxler, ex compagno proprio di Verratti al Psg.
Non possiamo sapere se l’abruzzese tornerà o meno a calcare i campi del Vecchio Continente. Ad oggi, la sua esperienza in Europa si chiude senza aver disputato nemmeno un minuto in Serie A, essendo passato direttamente dalla B col Pescara al Psg.
Con i parigini Verratti ha trascorso undici stagioni, conquistando ben trenta trofei, fra i quali vanno annoverati nove campionati francesi.
Che legacy lascia Verratti alle sue spalle? Quando esplose nel campionato cadetto del 2011-12, Verratti era il play basso della mediana del Pescara che Zdeněk Zeman era riuscito a riportare in Serie A grazie anche all’apporto di un trio delle meraviglie composto dal centrocampista di casa (Verratti è infatti nativo proprio della città abruzzese), da Lorenzo Insigne e da Ciro Immobile.
La decisione di uno dei centrocampisti più promettenti del panorama calcistico nazionale di lasciare il Bel Paese per andare a giocare in Ligue 1 fu uno dei primi segnali di quella crisi del calcio italiano che ancora attanaglia il football nostrano.
Dal punto di vista della sua carriera, il passaggio al Psg ha rappresentato certamente uno step in avanti. Verratti ha come detto vinto tanto e si è imposto come uno dei centrocampisti migliori del campionato transalpino.
Tuttavia, da quando ha lasciato Pescara fino a quando, oggi, ha lasciato Parigi, l’impressione è che Verratti non si sia sviluppato come ci si attendeva. E così, il trentunenne nuovo centrocampista dell'Al-Arabi non è riuscito a imporsi nel panorama internazionale come invece gli era stato preconizzato da molti.
In pratica, nonostante una finale di Champions League raggiunta col Psg e una vittoria ai campionati europei con l’Italia, le due consecutive mancate qualificazioni ai Mondiali con gli Azzurri e le altre campagne continentali con il club hanno di fatto contribuito ad impedire a Verratti di affermarsi ai più alti livelli.
Che cosa resta dunque di Verratti? In realtà poco. La sua stessa parabola parigina, al netto dei successi, si è conclusa malamente, finendo fuori del progetto tecnico del nuovo allenatore, quel Luis Enrique il cui gioco di posizione sembrava invece ideale per esaltarne le qualità.
Vuoi per gli infortuni (746 giorni totali di inattività calcolati da L'Équipe), vuoi per i troppi cartellini rimediati, vuoi per il fatto di essere circondato da star di respiro maggiore (da Zlatan Ibrahimović a Lionel Messi, da Kylian Mbappé a Neymar) le Petit Hibou ha faticato a farsi notare.
E questo, forse, è dipeso anche dai limiti tecnici del giocatore. Sì perché, pur avendo scomodato frettolosi paragoni con Andrea Pirlo ad inizio carriera, Verratti in realtà si è dimostrato essere più una mezzala di possesso che un metronomo. Un giocatore abile nella difesa della palla sotto pressione e nel pulire la giocata più che un play in grado di dirigere i flussi di gioco.
Tanto è vero che il meglio di sé, ad alti livelli, Verratti lo ha espresso quando ha potuto giocare al fianco di un secondo palleggiatore, più regista di lui, come avvenuto con Thiago Motta a Parigi o con Jorginho in nazionale.
Verratti quindi alla fine non è stato né il nuovo Pirlo né il nuovo Andrés Iniesta. L’amore che ha raccolto e l’ammirazione di molti è stato allora frutto soltanto di una allucinazione collettiva? No. È stato semplicemente il risultato della padronanza tecnica di un giocatore di sistema al quale, comunque, dobbiamo dire grazie per le giocate che ci ha regalato.
Che Manchester City sta nascendo quest’anno?
Ultimamente sulla stampa britannica sono uscite tutta una serie di analisi che hanno come punto focale il Manchester City e come minimo comun denominatore la descrizione della squadra come di una compagine più pragmatica, forse addirittura indebolita a livello qualitativo rispetto alle rose che i citizens avevano a disposizione nelle stagioni passate.
L’adattabilità di Pep Guardiola al materiale a disposizione sembra aver instillato l’idea in alcuni analisti che il City dello scorso anno e quello di questo inizio di stagione siano due squadre più difensive, come dimostrerebbe la soluzione dei quattro difensori centrali sperimentata nello scorso anno.
Infatti, mentre prima c’erano Kyle Walker, Joao Cancelo o Aleks Zinchenko ad agire da falsi terzini, ora che c’è una costruzione prevalente 3-2 è stato Stones al quale Guardiola ha chiesto di alzarsi a centrocampo in possesso, partendo da terzino o da centrale.
Quando questa soluzione è diventata una costante, nella seconda parte dell’ultima stagione, il City ha aumentato il controllo sulla partita, non rischiando più tanto in contropiede.
La promozione a titolare di Jack Grealish, un giocatore capace di mantenere il possesso della palla portando l’azione offensiva in zone più pericolose di campo, non ha fatto altro che aumentare questo controllo della gara da parte del City.
Alla fine, l’unica squadra che ha veramente impensierito il City in partite importanti è stata l’Inter nella finale di Champions.
Questa ricerca ossessiva del controllo è stata scalfita dalla presenza di Haaland. I dati lo confermano. Il City 2022-23 (il primo con Haaland) registrava un PPDA di 11.74, un field tilt del 70.12%, un possesso medio del 65.2%, una Build-up Disruption di +2.46%
Il City 2021-22 (senza Haaland) ha prodotto invece una Build-up Disruption di +3.96%, un PPDA di 10.16, un field tilt del 75.56% mentre il possesso era del 68.2%
Detto questo, articoli che si domandavano se il norvegese avesse migliorato o meno il City sono apparsi eccessivi. L’arrivo dell’ex Dortmund infatti ha permesso al City di avere a disposizione un’altra arma che, oltre che segnare una valanga di gol (36 in 35 partite di Premier), concentrava l’attenzione degli avversari su se stesso, con benefici che potevano ricadere sui compagni.
Il mercato di quest’anno (Joao Cancelo, Aymeric Laporte, Cole Palmer, Ilkay Gundogan e Riyad Mahrez ceduti, (Josko Gvardiol, Mateo Kovacic, Matheus Nunes e Jeremy Doku acquistati), al di là di situazioni particolari (il feeling rotto fra Cancelo e Guardiola, la mega offerta del Chelsea per un giovane con Palmer) è sempre improntato alla volontà di Guardiola di tornare a controllare le partite come in passato.
Gvardiol è un abile costruttore che garantisce più qualità in questa fase del gioco. Kovacic un palleggiatore che può servire palloni puliti dalla zona di costruzione a quella di rifinitura, Nunes un valido ricambio come no 6 o no.8, Doku un dribblatore in grado di garantire ampiezza e superiorità numerica in situazione di uno contro uno sulla destra, dove non c’è più Mahrez 8° volte viene impiegato Bernardo Silva).
La domanda se il City si sia rinforzato o meno con questa campagna acquisti è quindi, in un certo senso, mal posta. La questione riguarda piuttosto il perché sia stata fatta una certa campagna trasferimenti. Come detto poc’anzi, la motivazione dietro le mosse del City, in linea generale, appare essere quella di consentire a Guardiola di poter approssimare allo zero le fasi di gioco nelle quali il City non ha il controllo della situazione.
Il fatto che il Manchester appaia più cinico non significa che Guardiola abbia abdicato al controllo in favore di una squadra più incline a determinare gli episodi.
La crisi tedesca
Se l’Italia piange (dopo il pareggio con la Macedonia del Nord) nemmeno la Germania ride. Die Mannschaft è stata infatti travolta in amichevole (1-4) dal Giappone, squadra evidentemente indigesta ai Tedeschi dopo la sconfitta subita anche ai Mondiali del Qatar.
Ancora una volta il commissario tecnico giapponese Hajime Moriyasu è riuscito a mettere in scacco il collega Hans-Dieter Flick. L’ex tecnico del Bayern ha pagato, venendo esonerato dalla Federazione tedesca.
La sconfitta col Giappone chiude quindi l’era Flick. Il cinquantottenne di Heidelberg era stato chiamato dalla DFB nell’agosto del 2021 in sostituzione di Joachim Low per risollevare le sorti di una nazionale uscita con le ossa rotte dal campionato europeo di quell’anno.
Flick non è riuscito nell’impresa di ridare dignità calcistica alla Germania, fino alla disastrosa campagna mondiale dello scorso anno, con i Tedeschi eliminati ai gironi del torneo per la seconda coppa del Mondo consecutiva.
Flick ha pagato la decisione di affidarsi troppo ai giocatori del Bayern (a partire da Thomas Muller e la fragilità difensiva della sua squadra: in totale, la Germania ha vinto solo quattro delle ultime 16 partite disputate e hanno concesso 11 reti nelle ultime cinque uscite.
La serie All or Nothing dedicata alla Germania in Qatar non ha fatto altro che confermare le problematiche della nazionale tedesca le difficoltà del suo (ex) allenatore nel gestire la situazione.
Secondo Roberto Brambilla, giornalista esperto di calcio tedesco, ‹‹in ventiquattro partite, Flick non è stato in grado di dare una fisionomia, una identità alla squadra››.
Ora la nazionale teutonica verrà affidata a Rudi Völler (coadiuvato da Hannes Wolf e Sandro Wagner) in attesa di un sostituto definitivo (Julian Negalsmann?).
Ma i problemi della Germania vanno al di là del nome del commissario tecnico. Va bene quinid criticarne il gioco, soprattutto la fragilità difensiva (che già aveva piagato il suo pur vincente ciclo al Bayern) ma un’analisi approfondita della situazione non può limitarsi a problematiche di campo. Dalla sconfitta in semifinale contro la Francia a Euro 2016, la nazionale tedesca non è più riuscita a riproporsi ad alto livello.
La squadra (e qui si torna al paragone inziale con l’Italia) paga la mancanza di un vero centravanti. L’unico su cui poter contare è Niclas Füllkrug, che non è certamente un top player. Dietro di lui ci sarebbe Kai Havertz, che non è un cannoniere e che Mikel Arteta sta cercando di riconvertire in centrocampista all’Arsenal. La fase offensiva non produce a sufficienza e il talento dei vari Serge Gnabry, Leroy Sane e Florian Wirtz appare sprecato.
Anche la posizione di terzino è scoperta; col Giappone a sinistra ha giocato Nico Schlotterbeck, un centrale al Dortmund.
Il fatto che non si producano più certe tipologie di giocatori fa tornare nuovamente in ballo una certa radicalizzazione del gioco di posizione, che rende faticoso tirar fuori un no.9 finalizzatore più che associativo. Ne avevamo già discusso qui.
‹‹Faccio fatica a trovare un nove puro›› dice Brambilla. ‹‹È una cosa che manca. Se guardi le nazionali giovanili tedesche, i giocatori ci sono, penso a Youssoufa Moukoko, però quello del centravanti di livello internazionale ad oggi è un problema endemico del quale molti si lamentano. Molti hanno sostenuto appunto che un certo tipo di gioco abbia portato la Germania a creare giocatori di talento, tecnici, trequartisti, ma non centravanti puri o difensori che sappiano marcare››.
Eccessiva formalizzazione del gioco, riduzione delle ore spese col pallone a soltanto quelle trascorse nelle scuole calcio, mancanza di gioco libero per strada possono essere considerati, in Germania come in Italia, fattori che stanno abbassando il talento a disposizione delle selezioni nazionali?
‹‹I Tedeschi sono meno sedentari degli Italiani›› interviene Brambilla. ‹‹Ancora: se guardi alle giovanili, i giocatori di talento ci sono. Il problema è il passaggio al professionismo e in questo sì, torniamo ad un parallelismo con l’Italia››.
Se uniamo questi fattori ad una proposta a volte troppo robotizzata, ecco che il risultato è proprio la mancanza di alcune tipologie di calciatori, specialmente in quelle posizioni di campo dove è necessaria una maggiore individualità.
Queste tematiche vanno oltre la scelta del nuovo tecnico della nazionale e chiamano in causa la Federazione. Tutto questo a un anno di distanza dal prossimo campionato europeo, che si giocherà proprio in Germania.