Venerdì 26 luglio si sono ufficialmente aperti a Parigi i Giochi della XXXIII Olimpiade. Ci sarebbe molto da scrivere sugli sport presenti (e su quelli assenti) dalla competizione, così come bisognerebbe discutere del gigantismo e della piega iper-capitalistica presa dalla manifestazione olimpica.
Dato però che questa newsletter parla di calcio, la questione da affrontare diventa quella del calcio alle Olimpiadi (e no, questo discorso esula dal caotico Argentina - Marocco). In realtà il matrimonio fra lo sport più popolare del mondo e la manifestazione sportiva più importante di tutte non è mai stato idilliaco. Non a caso, a partire dalle Olimpiadi di Barcellona ‘92 le selezioni che partecipano ai Giochi sono composte da Under 23, con soli tre fuoriquota ammessi a partire dall’edizione successiva (Atlanta ’96).
Il problema però è un altro e cioè che del calcio alle Olimpiadi non interessa a nessuno. Da quando la FIFA ha istituito la coppa del Mondo (1930), il football olimpico non ha più molto senso. E questo perché, a mio avviso, alle Olimpiadi dovrebbero essere rappresentate quelle discipline sportive che hanno nella competizione olimpica la loro massima forma di espressione e nella medaglia d’oro il maggior titolo da poter conquistare.
Nel calcio l’alloro più ambito è quello mondiale. Nessun giocatore baratterebbe vincere una coppa del Mondo (e forse nemmeno un titolo continentale) con l’oro alle Olimpiadi. Persino vincere una Champions con il proprio club è più importante che conquistare una medaglia con la nazionale. Un discorso che vale anche per il tennis: chi scambierebbe un oro olimpico per un trionfo a Wimbledon?
Tornando al calcio, la grande storia di questo sport è stata scritta dalle sfide fra i club, dai Mondiali e dalle competizioni continentali. Del calcio olimpico si ricorda poco. A memoria direi soltanto la vittoria della Francia di Platini nel 1984, quella dell’Unione Sovietica sul Brasile di Romário e Careca nel 1988, la disastrosa sconfitta per 4-0 subita dall’Italia ad opera dello Zambia sempre a Seul ’88, la vittoria della Nigeria sull’Argentina nel 1996.
Il calcio alle Olimpiadi è quindi solo business: il tentativo di avere lo sport più famoso del pianeta presente in qualche modo nella competizione, anche se non nella sua massima espressione tecnica.
In Sullivan We Trust
Cavan Sullivan è diventato il giocatore più giovane a scendere in campo nella storia della MLS quando, mercoledì 17 luglio, Jim Curtin ha deciso di mandarlo in campo durante la partita vinta dai Philadelphia Union (5-1) sui New England Revolution.
A 14 anni e 293 giorni d’età Sullivan (entrato all’ottantacinquesimo minuto al posto di Tai Baribo) ha battuto il precedente record, detenuto da Freddy Adu con 14 anni e 306 giorni (al momento del suo esordio nel 2004 con la maglia dei DC United).
È quindi più di una settimana che negli USA si parla e si scrive di Sullivan, considerato da molti the next big thing del soccer. Un soccer che sta attraversando un periodo di crisi, come abbiamo avuto modo di sottolineare nella scorsa newsletter e che, per questo, aspetta un nuovo messia calcistico in grado di risollevarne le sorti.
Che Sullivan sia in grado di assolvere questo compito, solo il tempo ce lo dirà. Di certo le aspettative sono tante, soprattutto tenendo conto che il ragazzo è già di proprietà del Manchester City e che si trasferirà in Premier al compimento dei diciotto anni.
Nel frattempo Sullivan si farà le ossa in MLS e con i vari USMNT, come già fatto con una Under 15 condotta nel 2023 alla vittoria del CONCACAF U-15 Championship, competizione nella quale il no.6 di Philadelphia è stato anche eletto Pallone d’Oro.
La strada per Sullivan (nativo proprio di Philadelphia) è ancora lunga e già sono cominciati a circolare dei paragoni con il sopra menzionato Adu, la cui parabola storica in verità il classe 2009 cercherà di non ripetere.
Tuttavia, Alexander Abnos, sul Guardian, ha sottolineato come Sullivan si venga a trovare in una situazione diversa rispetto a quella che vide protagonista Adu vent’anni fa. E questo, per il giornalista inglese, è dovuto soprattutto a una MLS profondamente cambiata rispetto a quella che accolse Adu nel 2004.
A mio giudizio però la questione non riguarda soltanto ‹‹lo stato della lega›› (come scrive Abnos), ma anche il fatto che stiamo parlando di un ragazzo che sembra avere intorno un ambiente in grado di tutelarlo maggiormente rispetto a quanto avvenne, a livello di esposizione mediatica, con Adu.
In questo sì che gioca la sua parte anche la nuova MLS. Sullivan è la speranza per il futuro della nazionale statunitense, ma non l’unica stella che dovrà accendere la luce (c’è già Christian Pulisic per quello) e nemmeno il giocatore a cui aggrapparsi per lanciare il soccer, come si sperava sarebbe stato Adu.
Inoltre, Sullivan accanto a sé avrà il supporto del fratello maggiore (di sei anni) Quinn e del padre Brendan: il primo gioca con Cavan negli Union e il secondo ha avuto esperienze da professionista.
Non ci resta dunque che attendere e vedere come il giovane Sullivan si svilupperà e che china prenderà la sua carriera. Nel frattempo, a proposito di giovani americani e di Premier, il Chelsea ha comprato Caleb Wiley diciannovenne terzino sinistro proveniente dagli Atlanta United che potrebbe essere girato in prestito allo Strasburgo, altro club di proprietà del gruppo BlueCo.
Ché, che Ché…
Il Torino ha ufficializzato l’arrivo di Ché Adams. L’attaccante arriva a titolo gratuito dopo che il suo contratto col Southampton è scaduto. Adams ha firmato un accordo triennale con il club granata.
Finora, dal punto di vista realizzativo, Adams il meglio di sé lo ha dato nel Championship (la seconda divisione inglese), categoria nella quale ha messo a segno 22 reti nel 2019 (con la maglia del Birmingham) e 15 in quella appena conclusa, contribuendo al ritorno del Southampton in Premier.
Nella massima serie Adams ha invece fatto fatica, non arrivando mai in doppia cifra nelle quattro stagioni disputate (si è fermato a 9 gol nel 2020-21).
A Torino sbarca dunque un giocatore al quale non si dovranno chiedere forzatamente valanghe di reti. Se queste dovessero arrivare, tanto meglio. Ma al nazionale scozzese verrà chiesto soprattutto un lavoro di supporto a Duván Zapata, col quale potrebbe formare una coppia di attaccanti dal sapore tradizionale: uno grande e grosso e l’altro più piccolino (Adams è infatti alto 1.75 cm).
Adams rappresenta il prototipo dell’attaccante multi-funzionale, in grado di lavorare in entrambe le fasi di gioco e di mettere la propria intensità a disposizione della squadra. Inoltre il neo granata sarà il primo scozzese a vestire la maglia del Toro dai tempi di Joe Baker e Denis Law (1961-62).
L’inizio di Kompany
Quando arriva un nuovo allenatore e comincia un nuovo ciclo tecnico, il refrain da parte di stampa e giocatori è sempre lo stesso. Frasi come ‹‹non abbiamo mai lavorato così tanto›› o ‹‹ha portato una nuova mentalità›› sono all’ordine del giorno. Basta sostituire il nome dell’allenatore x con quello dell’allenatore y e troverete facilmente una sorta di copia e incolla valido per tutti i nuovi tecnici assunti.
È un po' come a scuola, dove il nuovo insegnante è sempre meglio di quello precedente. Questo almeno in partenza. Sì perché poi, quando arrivano i voti (le scelte e i risultati se parliamo di campo) ecco che possono arrivare le dolenti note.
Andare dunque a cercare qualche novità riguardante le nuove panchine a luglio è impresa assai ardua. Tuttavia, il giornalista (così come l’analista) deve fare anche cronaca. E la cronaca in queste prime giornate dei vari raduni estivi è stata particolarmente attenta proprio a quei ritiri precampionato nei quali stanno operando gli allenatori che hanno cambiato squadra.
Così non deve stupire se The Athletic ha analizzato i primi passi compiuti da Vincent Kompany al Bayern. Tutto ciò è stato reso possibile anche dal fatto che i bavaresi, a differenza di molti altri club, non hanno nessun problema a mostrare sul loro canale YouTube parte degli allenamenti svolti.
Questo ha reso possibile osservare come Kompany stia cercando di lavorare sulle transizioni difensive, vero punto debole del Bayern dello scorso anno.
In questo senso va letto anche l’ingaggio di João Palhinha, col portoghese che andrà a svolgere compiti di schermo davanti alla difesa. La fase di non possesso è stata uno dei punti deboli della formazione allenata da Thomas Tuchel. Il Bayern infatti, al netto dei 37.72 xG concessi, ha incassato ben 45 reti in campionato, risultando appena la quinta difesa della Bundesliga per gol subiti.
Particolarmente deficitaria, come detto, è stata la fase difensiva sui contropiedi avversari. In questo si è sentita la mancanza proprio di un centrocampista di contenimento, mancanza più volte lamentata da Tuchel (che infatti ne chiedeva a più riprese l’acquisto).
Ora, con Palhinha, Kompany dovrebbe avere a disposizione questo tassello mancante. E, per questo, il club tedesco non ha esitato a spendere €56 milioni per assicurarsi le prestazioni del ventinovenne prodotto dello Sporting Lisbona. Con 190cm d’altezza per 80kg di peso, Palhinha garantisce una presenza fisica importante in mediana, oltre ad essere un noto ruba palloni.
Accanto all’ex Fulham potrebbe trovare spazio un Joshua Kimmich di nuovo spostato a centrocampo dopo che, con Tuchel, il tedesco era stato utilizzato nella sua vecchia posizione di terzino destro.